Discografie

Note

Il disco che a parte "Cari amici miei" di Marconi, raccoglie brani già pubblicati, veniva dato in omaggio agli abbonati della rivista Area dal 2004.

Cari amici miei (di Marconi/Coulter) è stata registrata presso il Reality Check Studio di Marco & Emiliano Zanni.
Voce: Gabriele Marconi
chitarre e arrangiamenti: Marco Zanni
Violino: Katharina
Tastiere: Alessandro


Musica alternativa. Ma alternativa a che? Mi è sempre venuto istintivo di chiedere. Certo, la risposta è ovvia, quasi banale, ma non mi ha comunque mai soddisfatto del tutto. Alternativa a tutto il mondo circostante. Almeno questo era il senso di tutte le "nostre" cose fino a un decennio fa. Le cose sono molto cambiate, ma non fa bene a nessuno dimenticarlo. Tutto il mondo era contro di noi. Noi eravamo quelli del ghetto e la nostra era la cultura del ghetto. Con una differenza: in tutto il mondo artisti del ghetto fanno fortuna, nel nostro no.
Il primo cantante nostro che ho scoperto è stato Leo Valeriano. Io e mio fratello comprammo nel '74 un suo disco e imparammo Berlin. Budapest e tante altre. Molto dopo scoprimmo un disco del Nuovo Canto Popolare. Ci faceva divertire l'ironia antirepubblicana, visto che i componenti del gruppo erano monarchici. Andavamo alla ricerca di qualsiasi incisione avesse un vago sapore di nostro. Avevamo una specie di complesso di privazione. Nati da una famiglia di artisti, con un nonno celebre cantante lirico ed un'educazione musicale che partiva dall'infanzia, ci faceva morire quest'apparente realtà per la quale non ci fosse nessuno che mettesse in musica le nostre idee e le nostre passioni. Conoscevamo tutti i cantautori a memoria, canzoni che parlavano di padroni, di anarchia, di proletariato... La musica (l'atmosfera) era bella, ci piaceva e ripetevamo le parole come se fossero canzoni in lingua straniera. Comprammo anche un paio di dischi di cantautori francesi "di destra". Imparammo a memoria anche le loro canzoni, trovando che il francese riusciva ad essere così una lingua più nostra di quella dei cantautori di sinistra. Il primo cantautore di destra che conobbi in carne ed ossa, di cui udii strimpellare i primi accordi, è poi diventato un artista famoso. Certo, per avere successo è dovuto uscire dal ghetto. Si tratta di Sergio Caputo, fiduciario del Fronte della gioventù del liceo classico Mameli di Roma, che io fre¬quentavo. Cantava «libertà, dove sei? Non sei certo più a Berlino o Budapest...» o qualcosa di simile. Dopo qualche anno - dopo che lui era sparito - risentii la stessa canzone alla radio, purgata dei riferimenti politici. Che tristezza! Ma Sergio in realtà è solo una povera vittima, una delle tante vittime dell'antifascismo militante. Voleva cantare e suonare la chitarra. Gli hanno detto che non poteva perché era fascista. Cosi è stato costretto a fare di tutto per dimenticare le sue origini, per farsi perdonare di essere stato nel ghetto. Io penso che in fin dei conti sarebbe stato più felice se avesse potuto fare il suo lavoro senza abiurare i suoi amici e le sue radici. Non era un simpatizzante qualsiasi, era lui che teneva i corsi politici, che ci insegnava ad usare la serigrafia. Sarà più felice oggi? Chissà.
Ricordo il primo concerto della Compagnia dell'Anello a Roma. Forse non si chiamava neanche così, allora. Credo fosse il '75. Erano tutti più o meno usciti di galera da poco. Chi per incidenti, chi per ricostituzione o chissà cos'altro. Furono una vera scoperta. Canzoni divertenti, orecchiabili, cantate con entusiasmo e suonate con gusto. Me ne andai con quelle parole che mi rintronavano nel cervello...
«Signor brigadiere mi sono difeso, erano in quattro ma uno l'ho steso»... Parole che forse oggi faranno sorridere qualcuno, ma che per noi parlavano di vita vera, di esperienza quotidiana. La Compagnia cantava nella nostra lingua e - in maniera piacevole e divertente - delle nostre tribolazioni quotidiane, dei nostri drammi e delle nostre piccole manie. Nel '77 il primo Campo Hobbit. Un'esperienza inverosimile. Singoli e gruppi, tutti per me più o meno sconosciuti, che si alternavano sul palco a cantare. Certi face¬vano ridere, altri piangere, altri vibrare il cuore. Una vera Woodstock. La sera si intonavano i vecchi canti e magari anche le canzoni dei cantautori degli "altri", cambiando qualche parola.
A sedici anni cominciai a suonare la chitarra; era lo strumento della mia generazione. Cominciai subito a giocare con le parole e gli accordi ma non ho mai pensato di fare canzoni sul serio. Negli anni seguenti mi trovai a cantare canzoni mie per i miei fratelli e per la cerchia più ristretta dei miei amici e camerati con i quali condividevo tutto. Erano le nostre-nostre canzoni. Mi interessava solo che piacessero a loro ed ero convinto che solo loro le potessero capire. Poi, alla fine degli anni '70, arrivò l'apocalisse. Il nostro mondo crollò tra il ferro e le manette della repressione. Ci eravamo già da troppo tempo abituati a scrivere e cantare canzoni per i nostri morti. Non eravamo noi ad essere alternativi al mondo, ma il mondo, tutto il mondo, che continuava ad essere alternativo a noi, tanto da ucciderci o gioire della nostra morte. Andai lontano, con decine di altri. Più fortunati di quelli che invece andarono "dentro". Uno di questi - un amico intimo - mi mandò a chiedere di registrargli le mie canzoni, perché potesse sentirle nella sua cella. Incisi una cassetta in cucina, con un vecchio registratore e gliela mandai. Non ne seppi più nulla.
Nove anni dopo mi dissi che il mio posto era dove tanti dei miei amici avevano eletto la loro dimora. Optai per una dignitosa carcerazione piuttosto che continuare a lancinarmi nel complesso di colpa di aver sofferto meno degli altri. Entrai in carcere senza spazzolino. Era il mio tentativo infantile di sentirmi come gli altri, non volevo avere nulla di più. Dopo tre anni uscii. Incontrai Gianni Alemanno, che conoscevo dai "vecchi tempi", che mi invitò ad un "campo quadri" del Fronte della gioventù. Ad assistere. Io ci andai. A disagio, un po' spaesato, mi presentai al Terminillo e mi misi in coda per registrarmi. Mi trovai davanti Isabella Rauti, che alle prime non mi riconobbe. Declinai le mie generalità, Isabella alzò lo sguardo, mi riconobbe e mi abbracciò. Notai molti sguardi sbigottiti. La sera ci furono discorsi e canti. Alcuni intonarono una canzone. L'avevo scritta io. Poi un'altra. Anche questa l'avevo scritta io. Canzoni che non avevo suonato per dieci anni, di cui non ricordavo gli accordi e a stento le parole. Parole che pensavo seppellite in un passato che non poteva ritornare. Le cantavano tutti. Trecento ragazzi in coro, alcuni dei quali avevano la metà dei miei anni. Scoprii che tutti quanti avevano una copia di quella cassetta che avevo registrato in cucina, a Londra, dodici anni prima e che tanti ragazzi, per un decennio, le avevano insegnate ad altri, le avevano cantate nei concerti. Sono gli eroici "traghettatori", alcuni noti (Alvise, Francesco Mancincili), molti sconosciuti, che hanno mantenuto vivo e presente il sentimento e il ricordo di una generazione di "giovani cuori che seppero morire". Rimasi sbigottito e commosso. L'attività della mia vita a cui avevo dato la minore importanza, l'iniziativa che avevo curato di meno, era quella che aveva avuto il maggior risultato. Senza di me o addirittura malgrado me. E stata una grande lezione. Era questo "l'agire senza agire", "l'atto puro", "l'azione che non si cura del risultato" di cui per anni avevamo parlato. Il bello delle canzoni è che assumono una vita indipendente, svincolata dal loro stesso autore e vanno a finire dove vogliono, senza che nessuno le possa pilotare. C'è sempre, è vero, chi cerca di appropriarsene, farne una cosa propria per negarla agli altri. Gli uomini purtroppo sono meschini. Si appropriano di tutto ciò che può servire ai loro scopi. Anche della memoria dei morti, figuriamoci di quattro parole messe in musica. Ma di questi personaggi meschini fa comunque giustizia il tempo, che - si sa - è galantuomo. Fu comunque solo allora che compresi una frase che mi ripeteva un ragazzo che mi insegnò i primi accordi sulla chitarra. Quando io dissi - scioccamente - che avrei voluto suonare un altro strumento perché la chitarra era da "compagni", quello mi disse che «una canzone vale più di mille volantini». È una frase che oggi ripeto fino alla noia. Spero che qualcuno la recepisca.
Oggi la musica alternativa non ha più bisogno di essere alternativa al mondo, anzi, può davvero diventare la musica del mondo. Non più la colonna sonora del ghetto, ma un prodotto da esportare al mondo esterno, ancora ignaro della nostra anima. Che è l'anima del popolo, cioè l'anima di tutti. Non ci caratterizziamo per uno specifico stile musicale, c questo ci rende meno "commerciabili". Funziona certo meglio farsi indicare un genere musicale dai mercati internazionali e cavalcarlo scimmiottando coloro che l'hanno inventato - magari lontani mille miglia - persino nell'abbigliamento e nei gesti. E quello che astutamente fanno i gruppi dell' "antagonismo assistito" della nuova sinistra e dei nuovi centri sociali. Il rap, l'hip bop è quello che che impone il mercato e loro, rivoluzionari da cartone animato, si mettono in riga e ballano alle note del pifferaio magico.
Noi per fortuna abbiamo ancora qualcosa di unico da dire, qualcosa che viene dal profondo. E sic¬come il nostro cruccio non è vendere tanti dischi, possiamo permetterci di farlo ognuno con i propri gusti e i propri mezzi. Sono i contenuti quelli che contano. Le canzoni delle lotte sociali - quelle vere, non quel¬le che si vendono oggi nei supermercati, firmate Jovanotti o 99 Posse - variano per ritmo, stile musicale e persino dialetto. Ma parlano tutte delle stesse speranze, dello stesso sangue e dello stesso amore. Sono canzoni di lotta, certo, ma anche canzoni d'amore. Sono, come le nostre, canzoni d'amore per la lotta e canzoni di una mai sconfitta lotta per l'amore.
Marcello de Angelis

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