Rassegna Stampa

Fabrizio Marzi, una grande occasione persa

Testata: LINEA

Data:8 ottobre 2010
Autore: Teresa Alquati
Tipologia: Specifico

Locazione in archivio

Stato:Pdf Rivista completa
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Una voce che ricordava moltissimo quella di Fabrizio De André. Una pigrizia che, al confronto, Adriano è uno stakanovista degli allenamenti di calcio. Fabrizio Marzi, nome d’arte di Fabrizio Pancini, rappresenta probabilmente la più grande occasione persa dalla musica militante dell’estrema destra, quando l’estrema destra aveva un senso. Perché Fabrizio aveva avuto tutto a disposizione per sfondare anche al di fuori dell’ambiente politico di riferimento.
Aveva Walter Jeder (ossia il cugino Walter Pancini) che gli scriveva brani sicuramente militanti, ma che aveva anche iniziato a proporre canzoni che potevano anche tranquillamente esulare dai circuiti della musica alternativa. E Jeder aveva pure rapporti tali da consentire a Fabrizio di disporre di arrangiatori e sale di registrazioni che, all’epoca, i cantautori “neri” neppure si sognavano. Il disco “finale” di Marzi, “Alzo zero”, era stato particolarmente apprezzato anche dall’entourage di Lucio Battisti. Un disco tardivo, che ripresentava i brani degli anni della militanza, insieme a tre inediti.
Ma anche un disco che mostrava con grande evidenza le potenzialità sprecate. Fabrizio restava così «quello dei campi Hobbit», un marchio di fabbrica che comportava anche una limitazione artistica assoluta. Indubbiamente un mito per tutti quelli che, sui monti d’Abruzzo, avevano alzato il braccio insultando ritmicamente un dirigente missino milanese mentre Marzi intonava “Un uomo da perdere”, dedicato ad Esposti (ucciso pochi anni prima nel corso di una delle tante operazioni disgustose del regime dell’epoca). Ma un mito confinato nell’interpretazione di canzoni che stavano a metà tra il cabaret e la ballata, tra la rabbia e la presa per i fondelli dell’avversario di turno.
Così passavano in secondo piano testi molto più intimisti come “Tutto come ieri”, autentica poesia musicata che però non rientrava nel repertorio delle canzoni militanti urlate sui pullman o nelle serate in birreria. Ma anche le canzoni più politiche e ideologiche dell’accoppiata Jeder-Marzi non sono mai entrate nella hit parade della musica alternativa. Basti pensare a “Sessantotto”, un’analisi approfondita di un periodo che è stato determinante per l’ultra destra come per l’estrema sinistra. O alla semisconosciuta “Epitaffio”, con un testo davvero impegnato e pur scanzonato. Elaborazione di un documento politico degli Anni ’60, da cui emerge la capacità di Walter di mettere in versi il suo modo irriverente di interpretare la realtà.
Quanto a Fabrizio, la pigrizia innata lo spingeva a ridurre al minimo le presenze nel circuito degli appuntamenti “neri”, delle manifestazioni di partito (ma su questo è difficile dargli torto, a posteriori), dei raduni, delle commemorazioni. Come si legge abitualmente nelle pagelle dei commentatori di calcio, Marzi «si è limitato a svolgere il compitino», di cantante di area che ogni tanto veniva riesumato per gli appuntamenti più importanti. D’altronde Fabrizio si era formato una famiglia, aveva un lavoro regolare, non si sentiva particolarmente motivato.
Eppure ora, nel massimo del disfacimento partitico, nella confusione più totale, la apparizioni di Marzi sono improvvisamente aumentate. Perché il richiamo della foresta sta avendo il sopravvento sulla pigrizia e nella degenerazione delle sigle ufficiali si aprono spazi interessanti per chi, nel profondo, ha un’autentica cultura alternativa. Ma a Fabrizio tocca ora il compito di motivare Jeder a creare nuovi testi, a proporre nuove canzoni.

Teresa Alquati


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