Si fa presto a dire fasci…
Testata: IL FONDO
Data:15 settembre 2009Autore: Antonio Pennacchi
Tipologia: Recensione
Locazione in archivio
Stato:Solo testoLocazione: ASMA-Archivio digitale RS,Web/Il Fondo,Il Fondo 2009-09-15
Torna alla Rassegna Stampa
BY MIRO – 15 SET ‘08
POSTED IN: SOCIETA’ & COSTUME
Che ne sai tu del lupo cattivo?
Uno degli ultimi scritti di Benedetto Croce si intitola L’Hitler che è in ognuno di noi.
Dice: “Embe’?”. Ecco, ho visto Nazirock e lì in mezzo, evidentemente, non è da escludere che ce ne possa anche essere qualcuno che circoli ancora libero solo in forza della legge Basaglia.
Dice: “E chi è sto Basaglia?”. E’ quello che abolì i manicomi. “Ah, è questo il male della democrazia”. Non si discute: loro agli psicostrani – insieme a tutti quelli che per il nazionalsocialismo erano gli “strani” veri, tipo ebrei, zingari, gay, comunisti, sovversivi e devianti vari – gli riservavano un trattamento di tutto favore in un posto chiamato Auschwitz. Noi nemmeno una casa di cura perché – poi dice che non è colpa di Basaglia – se non ti firmi la domanda di ricovero tu, da te stesso, non ti può fare un cazzo nessuno: continui a girare libero e giocondo come se avessi davvero tutte le rotelle a posto.
Però qui non c’è solo un problema di rotelle. Le rotelle fuori posto ci staranno pure, ma riguardano eventualmente solo qualche caso isolato e tu non puoi liquidare quel film – dopo averlo guardato – dicendoti tranquillamente: “Sono matti”. Ma allora sei matto tu. E nemmeno puoi dire: “Sono malvagi: s’è impossessato di loro il demonio, arrivederci e grazie”.
Quelli sono ragazzi normali esattamente come te od i tuoi figli. Se li incontri per la strada – a uno a uno – sono capaci di darti anche l’anima, se ti serve. Quelli di Casa Pound a Latina – a neanche settanta metri dalla libreria in cui ci vediamo noi dell’Anonima Scrittori – a volte sono pure dolci. Incrociandoci, ci salutiamo e sorridiamo. Buon vicinato. E ogni tanto anche qualche battuta. Poi, certo, se si mettono a strillare è un altro paio di maniche; ma sono esseri umani come te, con tutto il bene e tutto il male del mondo, dentro di loro. Dice: “Vabbe’, ma allora perché dicono quelle cazzate facendo uscire, da sé, solo il male?”
Per farti dispetto a te. Perché tu, per fare dispetto a loro e costruire un alibi a te, gli imputi d’essere loro il male – di incarnarlo – e quelle cose che dicono te le aspetti con brama. Non vedi quasi l’ora che le dicano ed anche in questo film Nazirock, che ritrae sicuramente una porzione di realtà agghiacciante, è fuori discussione che siano essi stessi a voler essere ritratti così; ma tu li hai compiaciutamente ritratti esattamente come volevano loro – e come forse già da prima t’aspettavi – senza esercitare un surplus di vaglio critico.
Loro giustamente t’accontentano: “Noi affermiamo ciò che voi negate e negheremo ciò che voi affermerete”, che è – come tutti sanno – il primo asset identitario di qualunque comunità che, almeno dalla scoperta del fuoco, per costituirsi come tale ha bisogno di un nemico e di una funzione antagonista. Questo valeva allora – ai tempi del fuoco e della pietra – e vale oggi, non solo per i ragazzi delle tribù Masai che, per divenire adulti, debbono per forza ammazzare una gazzella o rubare le galline nei pollai; ma anche per i nostri, pure quelli per bene, che vanno a scrivere “Viva la fica” sopra i muri o dicono tra di loro tutti quanti tra uno spinello e l’altro, la sera, dentro la macchina ferma con gli altoparlanti a palla: “Mio padre è una testa di cazzo”. Poi se campi ti rivorranno bene – crescendo – se invece muori te ne vorranno ancora di più; ma per l’intanto béccati questa: sei una testa di cazzo ed è giusto così, perché loro debbono crescere e si cresce solo in questo modo, non ce n’è un altro ed anche tu lo hai detto di tuo padre. Poi è chiaro – ma questo attiene alle leggi dei grandi numeri – che la stragrande maggioranza si limiti a dire peste e corna dei genitori in macchina, ma qualcuno che li meni proprio ci vuole pure, è la legge dei numeri, non si scappa, con chi te la vuoi pigliare? Ci vuole per forza, ma anche quello serve: il sasso dal cavalcavia, il morto d’overdose, il riempirsi di botte allo stadio ed ogni altra trasgressione forte e pure fortissima svolgono comunque una funzione sociale perché, proprio mentre lo violano, ristabiliscono il tabù e – dando libero sfogo ed unanime corso all’immediata riprovazione generale – riproclamano a viva voce a tutti quanti, all’intero corpo sociale in ogni suo sottogruppo o classe d’età, che queste cose, se si vuole stare insieme, non si fanno.
Dice: “Vabbe’, ma allora ne fai solo una questione socio-antropologica?”. Certo.
“E il problema politico?”
Ma quale problema politico: mica mi vorrai venire a dire che – a settant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale – c’è ancora un problema, cogente ed attuale, nazi-fascista in Italia. Ma davvero credi che questi siano un rischio per la democrazia? Non scherziamo, per piacere. I rischi per la democrazia – in Italia – sono tutti interni alla democrazia stessa; mica vengono da eventuali gruppetti di spostati. Gli spostati, provvidenzialmente, rifunzionano un’altra volta da alibi e capro espiatorio per tutti quei “campioni” della democrazia in pubblico – e dei cazzi propri in privato – che la minano, loro sì, dall’interno. Poi, certo, si fa presto a dire sempre: “I nazifascisti, i nazifascisti!”
Se uno però si volesse davvero mettere sul piano dell’analisi politica – e conseguentemente quindi anche su quello dell’esattezza ermeneutica e storiografica – qui sarebbe pure il caso di spiegare a loro e a chi ha fatto il film che nazismo e fascismo non sono la stessa cosa. Il nazismo è di destra: conservatore, tradizionalista, aristocratico-elitario – perfino esoterico – difensore della proprietà privata e soprattutto assertore della superiorità di una razza su tutte le altre. Nasce per questo. E’ questo il suo fundamentum ed è questa – come si dice anche in diritto commerciale – la sua “ragione sociale”.
Il fascismo è un’altra cosa: forse meno chiara e più confusa, perché più eterogenea nel suo sorgere e formarsi; ma un’altra cosa. Gli specialisti difatti oramai parlano concordemente di “fascismi” al plurale, essendo più che evidenti le sostanziali differenze che pure esistono, singolarmente, tra tutti i regimi cosiddetti “fascisti” che nel corso del Novecento si sono avuti tra l’Europa e il Sudamerica. Certo nel fascismo italiano – per come si è dato dal 1922 al 1943, e poi fino al 25 aprile 1945 – esistono pure componenti di destra e financo di ultradestra reazionario-conservatrice. Ma quando Roberto Fiore, il capo di Forza Nuova, dice in Nazirock che il fascismo ha fatto pure due o tre cose buone – e che lui ne va “orgoglioso” – tu non gli puoi dire che sta dicendo delle cazzate.
Certo è vero che lui sembri scordarsi delle restanti “due o tre” non altrettanto buone: dalle leggi razziali alle deliranti politiche di aggressione coloniale e di potenza. Deliranti non solo in quanto inique, ma soprattutto in quanto velleitarie (quando andarono a comunicare al senatore Agnelli che Mussolini si apprestava a dichiarare guerra agli Stati Uniti d’America, il fondatore della Fiat rispose solo: “Ma glielo avete fatto vedere un elenco telefonico di New York?”). I bombardieri americani sulla testa – ad ammazzare la nostra gente e a distruggere, insieme al Paese, anche quel poco di buono che il fascio aveva pure fatto – ce li ha chiamati lui, il Duce, mica ci sono venuti per volontà divina.
Ora il fatto che il capo di Forza Nuova si scordi questi piccoli particolari negativi – e si scordi soprattutto che il giudizio su qualunque fenomeno o periodo storico non si dà in base alle premesse od intenzioni, ma in base al rendiconto finale del dare e avere: dei risultati concreti o dei disastri con cui si è concluso – non può però autorizzare te a negare anche quelle “due o tre cose buone”. Tu – se sei “democrazia” – non puoi dire a nessuno: “Questa è la Storia come l’ho scritta io, prendere o lasciare: questa è la verità che ho stabilito una volta per tutte e chiunque si permette di volerla mettere in discussione o di volerla revisionare in qualche singolo aspetto è un figlio di puttana e non si può fare”. Ma tu sei scemo. Mica sei Papa Ratzinger. Che cazzo di democrazia è? Io – se sono un uomo onesto e giusto – io ho il dovere in ogni istante della mia vita di cercare la verità, il verum factum, senza fermarmi ai dogmi “rivelati”. Io ho il dovere di non fidarmi per decretum di alcun giudizio o fonte, senza prima averli sottoposti a verifica critica ed eventuali revisioni o modifiche conseguenti a nuove acquisizioni, scoperte o comparazioni con altre fonti. Questo è il metodo scientifico e la scienza non si fa per decreto. Per decreto si fa la propaganda.
Quello che però fa la differenza - il discrimine – tra “destra” e “sinistra” non è la pur importante considerazione o meno delle cosiddette “libertà individuali”, poiché non v’ha chi non veda come anche gli Stati di derivazione marxista che si sono dati nel corso del Novecento siano stati anch’essi, per così dire, leggermente illiberali (il che però non è la stessa cosa che “iniquo”,poiché tutte le società liberali o cosiddette tali sono sempre state – e sono – fortemente inique, poiché nelle società liberali è liberissimo e sta bene chi sta bene, ma chi sta male sono beati cazzisuoi). Quello che discrimina destra e sinistra – almeno in termini marxisti – è la struttura sociale, i rapporti di produzione, il concetto di proprietà privata ed il regime giuridico e fattuale a cui essa è sottoposta. Ora si dà il caso che tra le “due o tre cose buone” fatte in Italia durante il fascismo ci sia la modernizzazione del Paese, con la sua trasformazione da prevalentemente agricolo ad industriale: nel 1938 gli addetti nell’industria raggiungeranno il 30% della popolazione attiva, con una quota del Pil pari al 34,2%, superiore per la prima volta al 30% dell’agricoltura (servizi: 35,8%) e ciò che fa l’ulteriore differenza, in termini strutturali, è che già nel 1934 il 48,5% del capitale industriale sarà di proprietà statale o parastatale, mentre alla vigilia della guerra la sola Iri – creata e fondata dal fascio – deterrà oltre il 44% del capitale azionario esistente in Italia. Questa è “struttura” o no?
Ma non basta: sono loro che in Italia creano dal nulla le prime basi dello stato sociale – il welfare – dalle case popolari ai sistemi pensionistici, sanitari, antinfortunistici, previdenziali, assistenza all’infanzia, lotta all’analfabetismo, dopolavori e tempo libero, scuole rurali ed elementari. Dice: “Vabbe’, ma lo stato sociale ce lo avevano pure in Germania con il nazionalsocialismo”. Vero, ma lì se lo erano già ritrovato dai tempi di Bismarck (il quale, per inciso, s’era rivolto pure a Marx, chiedendogli deferentemente di far parte del suo trust di cervelli). In Italia lo hanno fatto loro. E soprattutto hanno fatto le bonifiche e gli assalti al latifondo. Tu non puoi continuare a nascondertelo, altrimenti non arriverai mai a capire com’è che dietro al fascismo ci fosse il consenso delle larghe masse e – per un certo periodo – dell’intero popolo italiano. Compa’, la gente li ha mollati solo quando hanno perso la guerra. Non un minuto prima. Non ci è fregato niente – nella stragrande maggioranza – nemmeno delle leggi razziali del 1938. Li abbiamo mollati solo quando gli alleati sono sbarcati in Sicilia (10 luglio 1943: fatti da solo i conti di quanti giorni manchino al fatidico 25) e i bombardieri ci sono entrati dentro casa. Solo allora gli abbiamo detto “Vaffanculovà”, non un minuto prima – almeno la maggioranza – anche perché negli anni precedenti, a partire dal 1922, almeno un milione di ettari di terra (o meglio: da uno a due milioni) erano passati in Italia, più o meno forzosamente, dalla grande proprietà terriera alla piccola proprietà contadina, pure proprio con gli espropri: dall’Agro Pontino alla Campania, alla Puglia, alla Sardegna, all’attacco al latifondo siciliano. Trovamela tu una dittatura reazionaria di destra – una dittatura “borghese” – che leva la terra ai ricchi per darla ai poveri. Non c’è. Non la trovi sui manuali. Ed è per questo che qualcuno (A.J. Gregor, 1979) definisce il fascismo italiano come una “varietà del marxismo“, poiché questo in effetti è il portato vero – molto più dei giornaletti dei Guf o delle meditazioni corporativo-bottaiane – della “sinistra fascista”. Poi certo se so’ magnati tutto con la guerra: tutti i poderi dell’Agro Pontino distrutti, le idrovore, i morti, i canali, tutte le Paludi riallagate e le città nuovecoventrizzate; ma ciò non ti consente di dire che il fascismo italiano era di destra o che è la stessa cosa del nazismo. E’ stata una iattura. Il Paese l’ha pagata a caro prezzo. Ma al suo interno ci sono state pure cose positive. Ed era una dittatura – in termini strutturali e marxisti – di sinistra.
A quelli di Forza Nuova andrebbe però anche spiegato che gran parte di quelle “due o tre cose buone” – se non lo stesso nascere ed affermarsi del fascismo – vanno ricondotte al precipuo apporto degli ebrei italiani. E qua sta l’infamia peggiore del fascismo. Peggiore pure del nazismo.
Ora è chiaro che lo sterminio degli ebrei non è imputabile al fascismo italiano: quello lo fa il nazismo e solo il nazismo, dire il contrario è un falso storico. Ci sono anche stati episodi – durante la Rsi – di collaborazione italiano-repubblichina in rastrellamenti e trasporti agli ordini dei tedeschi; ma risultano allo stato episodi isolati, non sistematici e comunque eterodiretti, soprattutto ove si consideri la oggettiva natura di “governo fantoccio” della Rsi, con alcune parti del Nordest addirittura già sotto la formale giurisdizione del Reich. Resta però che il nazismo ce lo aveva nel suo Dna l’antisemitismo: era nato per quello, per risolvere una volta per tutte – secondo loro – la questione ebraica nei territori germanici. Il fascismo no (e difatti, quando pure gli prese la briga, coniò un suo nuovo “razzismo spirituale“, senza assumere in toto quello “biologico” dei nazionalsocialisti).
Su circa 42 milioni di abitanti difatti, in Italia i cittadini di cosiddetta razza ebraica non erano più di trentamila. Quale problema razziale avrebbero, eventualmente, mai potuto costituire per il fascismo? Anzi. Se uno si legge laStoria degli ebrei in Italia di Attilio Milano si rende perfettamente conto che – proprio perché erano stati per tanti secoli reietti e discriminati dalle leggi pontificie, e resi per la prima volta liberi ed eguali solo da quelle napoleoniche – gli ebrei italiani identificarono in massa la propria emancipazione nella assimilazione e nella partecipazione attiva al processo di emancipazione nazionale e unitaria definito Risorgimento. Ne furono fin dagli inizi alla testa. Aderiscono poi in massa e si fanno promotori del Partito nazionalista e del movimento fascista stesso – che non a caso si autodefiniva erede e prosecutore del Risorgimento – fino ad arruolarsi e morire in battaglia, spesso da eroi e con diverse medaglie d’argento al valor militare, nella Grande Guerra. Poi faranno il fascismo e la marcia su Roma e, nel primo governo Mussolini, uno di loro, Aldo Finzi, sarà sottosegretario all’Interno e membro del Gran Consiglio; fu anche coinvolto nel delitto Matteotti – tra i mandanti – e poi morì alla Fosse Ardeatine. Ma non si contano gli ebrei – e di rilievo – che nella vita pubblica e professionale, negli affari, nella cultura e nella vita privata, contribuiscono in massimo modo alla “causa” fascista. E’ ebrea la cognata di Pavolini – la moglie del fratello – è ebrea la segretaria di Farinacci, è ebrea Margherita Sarfatti, che non è solo l’amante del Duce, ma ne è la vera mente e mentore, quella che gli insegna non solo a leggere ma anche come si sta a tavola, che scrive sul Popolo d’Italia, che spiega al Duce cos’è l’arte, il futurismo e poi l’architettura razionalista. E Margherita Sarfatti perde anche lei in combattimento – nel gennaio del 1918, sul Monte Baldo – l’unico figlio di diciotto anni, un ragazzino “ebreo” arruolatosi anche lui volontario. E tu tutti questi li hai traditi e venduti gratis. Altro che i nazisti, che almeno ritenevano – distortissimamente, ma almeno lo ritenevano pure in tutta la loro follia – di averci un conto in sospeso. Tu che cazzo di conti avevi con questi qua? Tu non hai idea di quanti pensieri e parole di Mussolini – nell’Opera Omnia – sono in realtà di Margherita Sarfatti. I nipoti di Pavolini sono ebrei. Lo chiamavano “zio”. Sangue suo. E tutto il “fascismo di pietra“, il monumentum perenne, l’architettura fascista, le bonifiche e le “città nuove” – quelle “due o tre cose buone”, appunto, di cui parlavamo prima – sono tutta opera degli ebrei: ebrei-italiani ed ebrei-fascisti, anzi “fascistissimi” come l’architetto istriano-torinese Giuseppe Pagano Pogatschnig, il padre del razionalismo italiano che fino alla guerra di Grecia in cui andrà volontario accuserà gli altri – specie Piacentini – di non fare un’architettura sufficientemente “fascista”. E’ lui che fa il primo piano regolatore dell’Eur, ma muore a Mauthausen nel 1945. Ed erano ebrei Morpurgo, Mosè Tufaroli Luciano e tanti altri. Tu non avresti oggi non solo l’Eur com’è, ma neanche Aprilia, Pomezia, Fertilia, Segezia, Carbonia, Arsia, Cortoghiana eccetera, poiché questo è non già “frutto del genio italico”, bensì del genio eventualmente “ebreo”: Aprilia, Pomezia, Fertilia e Segezia le hanno fatte Tufaroli Luciano appunto – che si dovette cambiare il nome da Mosè in Mario – e Concezio Petrucci, che aveva moglie e figlia ebree, mentre il primo figlio della moglie morirà anche lui a Mauthausen. Ed era ebreo Guido Segre, già medaglia d’argento della Grande Guerra, imprenditore di fiducia del Duce, italianizzatore dei capitali austriaci di Trieste, ideatore e realizzatore dell’intera industria carbonifera italiana e delle città nuove di Arsia e Carbonia, progettate dall’architetto ebreo-triestino Gustavo Pulitzer-Finali che nel 1938 però, a differenza sua, capita l’aria scappò con la famiglia in America. Segre invece rimase convinto fino all’ultimo che a un fascista come lui – uno che si dava del “tu” dai vecchi tempi con il Duce – non avrebbero fatto niente. E invece morì di crepacuore nel 1944 in Vaticano con la Gestapo che lo aspettava fuori della porta. Dei trentamila ebrei italiani, quasi un terzo – circa ottomila – spediti sui treni piombati in Germania non fecero più ritorno. Quelli avevano costruito con te – primi fra tutti – l’Italia unita ed il fascismo e tu un bel giorno del 1938 (o meglio, avevi già cominciato nel ’37) gli hai dato un calcio in culo e li hai messi alla gogna: “Morite come vi pare, che me ne frega a me? A me mi serve che muori, per far contento quell’altro stronzo di Führer”. Solo per questo. Per nessunissima altra ragione. Ed ecco perché le tue leggi razziali – pure se i campi di sterminio li hanno fatti loro – sono ancora più infami ed infamanti di quelle naziste. Altro che “Onore!”. Ed ecco perché – se uno ancora si mette a strillare: “Il sionismo! Il sionismo!”, come pure accade in quel film Nazirock– bisognerebbe solo chiamare il 118.
Resta però che si tratterebbe pure di vedere cosa c’è davvero – in substantia – dietro quel mito dell’”onore” (a parte le vitali funzioni demo-etno-identitario-antropologiche necessarie ad ogni comunità, anche arcaica o cosiddetta primitiva).
Certo l’armistizio dell’8 settembre 1943, con il re che scappa – “Ognun per sé e Dio per tutti” – e l’esercito che si sfalda, non è una delle pagine più gloriose della nostra storia. E’ stata definita “la morte della Patria” e sicuramente è vero. Ma altrettanto sicuramente è vero che la responsabilità primaria rimane tutta di chi aveva messo il Paese in quella tragica situazione, andando a dichiarare guerra a uno senza manco averne guardato – giusto quanto detto dal senatore Agnelli – l’elenco del telefono. E’ lui – prima ancora del re – che ha ammazzato la Patria. Forse è pure vero che l’aveva costruita (cfr. Emilio Gentile, Il culto del littorio), ma poi se l’è ammazzata con le mani sue. E l’onore pure lo aveva già ammazzato da un pezzo: non solo coi gas in Abissinia e le leggi razziali, ma con la “pugnalata alla schiena” alla Francia – altro che lealtà, fidelitas e regole cavalleresche – andandole a dichiarare guerra quando quella era già prostrata e vinta, solo per potere avere “qualche migliaio di morti” da risbattere un’altra volta sul tavolo a quell’altro stronzo dell’amico suo. E questo me lo chiami onore? Sì, l’onore di Maramaldo.
Comunque è un fatto che diverse migliaia di giovani che erano cresciuti in un costante ed unanime clima di culto del littorio, della patria e della palingenesi nazional-rivoluzionaria, si sono sentiti in dovere di andare a difendere l’”onore d’Italia” nella Rsi, a fianco al vecchio alleato germanico.
Certo tanti altri lo hanno difeso in montagna nelle Brigate Garibaldi, ed hanno fatto sicuramente meglio. Ma tu anche agli Rsi non puoi dire che erano tutti delinquenti.
Erano ragazzi cresciuti in quel clima, appunto, a cui le generazioni precedenti non avevano fornito alcuno strumento critico: i loro padri – e soprattutto i loro maestri e professori – fino al 25 luglio 1943 o pressappoco, erano stati tutti indomitamente fascisti. Mo’ che volevi da loro? Hanno messo in pratica gli insegnamenti. Poi, come si sa, quell’avventura è andata male: anzi, di male in peggio, con tutto il corredo delle nefandezze che ogni guerra civile s’è sempre portata appresso. Ma quei giovani hanno poi anche funzionato da alibi per tutti gli altri, per tutti quelli che nei vent’anni precedenti – e fino appunto al 25 luglio – non s’erano mai posti un dubbio alcuno, nel loro indiscusso consenso. Ora è certo che la Repubblica Italiana – con la sua democrazia e la sua costituzione democratica – nasca dalla Resistenza; ma è altrettanto certo che tutti quelli che l’hanno costruita, nella loro stragrandissima parte, fino al 25 luglio del 1943 erano stati in un modo o nell’altro tutti quanti fascisti. Ergo la Resistenza, da fenomeno storico che in alcune zone e regioni ha avuto anche veri e propri caratteri di “epopea” e di “guerra di popolo” – ma che sul piano complessivo, militante e militare, non può essere oggettivamente definito fenomeno dai caratteri unanimistici od anche maggioritari – è divenuta “mito” e “mitologia lustrante” (da lustratio: sacrificio purificatorio, purificazione mediante sacrificio), con il preciso ed oggettivo scopo di lavare e mondare ogni colpa di chi era stato fascista fino al 25 luglio e per tutti i vent’anni precedenti, e scaricarla in toto su quelli che ci erano rimasti anche nei due anni 1943-45: “Sono solo loro i nazifascisti, quelli sporchi brutti e cattivi: noi stiamo in pace, amen”.
L’estremo rito di lustratio - peraltro – è proprio piazzale Loreto. Ora è chiaro che non poteva non finire che così: se lo era cercato, se lo era voluto in tutti i modi, s’è inseguito caparbio il suo destino dalla massima ascesa fino alle massime colpe – il delirio di potenza, gli ebrei, le guerre, la sconfitta, l’assassinio del marito della figlia – tale e quale a Cola di Rienzo. Però è anche vero che solo pochi mesi prima, il 16 dicembre 1944 – l’ultima volta che va a Milano al Lirico – ripassa tra ali di folla di nuovo osannante e rapita. Dice: “Chissà quanti di quelli però, quattro mesi dopo, stavano pure a piazzale Loreto a fare ludibrio del suo cadavere”. Vero. Più hai amato uno prima e più lo odi dopo, anche perché ti vergogni di averlo amato. In ogni caso non s’è mai sentito di qualcuno che va ad ammazzare una donna di cui non gli frega niente: “Te ne sei andata? Arrivederci e grazie”. La gente, non tutta però per fortuna, va a ammazzare la donna – se li lascia – perché l’hanno amata. E più l’amavano e più la vanno a ammazzare, almeno così dicono i giornali. Del resto era stato proprio lui a dirlo alla Direzione socialista nel 1915: “Voi mi odiate perché mi amate ancora”. Però la lustratio, per funzionare davvero e mondare fino in fondo l’anima individuale o collettiva dai peccati e riuscire a scaricarli con successo su qualcun altro (dice: “Ma non è giusto”; ho capito, ma funziona così: in psicanalisi si chiama “rimozione”), come insegnano gli àuguri e i sacerdoti latini deve essere eseguita secondo una precisa e consolidata liturgia, che prevede prima di tutto l’esposizione ed il ludibrio del cadavere. Sennò non funziona. Ecco perché piazzale Loreto. Sennò come facevamo tutti quanti – quarantadue e passa milioni, mica uno – a dire tutti quanti a noi stessi che noi, col fascismo, non c’entravamo e non c’eravamo mai entrati un cazzo? Ahò, io a chi parlo parlo, non ne trovo uno che a un certo punto non mi dica: “Ah, mio padre (o mio nonno) è sempre stato antifascista”. Erano tutti antifascisti un altro po’ – già dal lungo corso del ventennio – e gli unici “fascisti” patentati sono rimasti quelli di Salò. Rimozione, appunto.
Ora è chiaro però che in psicanalisi – oltre ai meccanismi della rimozione attraverso individuazione e ricerca di un capro espiatorio e alle mito-liturgie anche sadiche della lustratio – sono abbastanza note pure le sindromi e fenomenologie masochistiche del “capro” che, molto più spesso di quanto non si creda, non ci va affatto controvoglia al macello. Non si ribella. Accetta la sua pena (mi pare sia Kundera che sostiene che, “se in Dostoevskij ogni delitto cerca la sua pena, con Kafka ogni pena cerca il suo delitto” e non a caso Dostoevskij è Ottocento – prima di Freud – mentre Kafka è Novecento ed era stato, guarda tu, in analisi). Il capro – la vittima designata – si crogiola nel suo dolore e più soffre e più è felice perché, anticipando ad libitum il suo stesso lutto, spera d’anticipare la morte e giocando d’anticipo spera segretamente d’esorcizzarla. Ma così la prolunga all’infinito. Non smette mai – fin che ha vita – di morire. Agogna solo quello. Non già il “culto degli eroi” quindi, ma meccanismi depressivi auto-necrofili – o quanto meno incapacità di elaborazione del lutto, tanto più individualmente funesta se assunta e idealizzata come collante identitario-collettivo – nel volersi identificareancora e perpetuare, settant’anni dopo, il ruolo di oggettivo capro espiatorio che svolsero, anche tra tanti criminali, la maggior parte ed i migliori di quei “ragazzi di Salò”. Lasciali riposare in pace.
Resta comunque che a Salò – o per meglio dire nei due anni di Rsi, dal 23 settembre 1943 al 25 aprile 1945 – vennero ripresi e rilanciati, almeno sul piano teorico, tutti i temi più cari del fascismo delle origini: di sinistra, nazional-rivoluzionario, socialista nazionale (quelle “due o tre cose”, insomma). Sul piano della pratica, in realtà, non si vide poi molto, sia perché le incombenze belliche avevano evidentemente tutt’altra priorità sia, soprattutto, perché oramai s’era in articulo mortis. Ma è questo il “fascismo sociale” della Rsi a cui tutti i gruppi neofascisti più radicali hanno sempre dichiarato di volersi rifarsi: quelle “due o tre cose”.
Ora però si dà il caso che – pure se solo sul piano teorico o propagandistico – quel “fascismo sociale” della Rsi guardasse dichiaratamente a sinistra, e ci guardasse anche nelle prefigurazioni di eventuali interlocutori o alleanze per il dopoguerra. E’ Giovanni Gentile difatti che poco prima di morire – ucciso dalla Resistenza fiorentina nell’aprile 1944 – ribadisce: “I bolscevichi non sono che corporativisti frettolosi” e saranno migliaia, diverse decine di migliaia, i fascisti repubblichini che dopo la guerra decideranno di proseguire la loro lotta per quelle “due o tre cose” e la “socialità” che ritenevano di avere visto nella Rsi, iscrivendosi in massa nei quadri del Pci e, in misura minore, del Psi. Non fu la destra il luogo d’elezione degli ex-Rsi. Anzi. Il dibattito fra i reduci fu aspro e prolungato: “Fascisti rossi“, li chiama Paolo Buchignani. E Stanis Ruinas continuerà fino al 1977, a quasi ottant’anni, a pubblicare Il Pensiero Nazionale sostenendo che il vero posto dei fascisti – almeno quelli che avevano davvero creduto ai valori sociali della Rsi – è solo a sinistra, al fianco stretto di socialisti e comunisti.
Ora io non è che voglia dare lezioni di fascismo a quelli di Forza Nuova. Che me ne frega a me? Facessero quello che gli pare. Però se uno dice che rivendica e vuol salvare quelle “due o tre cose buone” che ha fatto il fascismo, poi deve essere conseguente.
Innanzitutto non può – per difendere le “due o tre” buone – assumersi e difendere in toto pure quelle infami e/o cattive. E dove starebbe scritto? Chi te lo fa fare? Tu così non difendi le “due o tre buone”, ma rendi infami per sineddoche – o meglio ancora per proprietà transitiva – pure quelle, ricandidandoti nel contempo come capro metastorico e volontario. Poi dice che non è masochismo. Ma che male hai fatto nelle tue precedenti vite?
In secondo luogo bisogna essere chiari: il fascismo “sociale” ha la sua interpretazione autentica nel corporativismo ed in Gentile. Non si può mischiare Evola con Gentile. Sono due cose diverse. Sono capra e cavoli. Il corporativismo è essoterico – con due esse ossia per tutti, e vive nella storia – e non esoterico con una esse sola, o cripto-magico-iniziatico. Non c’è un Uomo che – da solo – attraverso una parola magica riesca a penetrare il cosmo. La parte non comprende il tutto e tu non puoi mischiare modernizzazione ed insorgenza, rivoluzione e reazione, ultra-tradizionalismo cattolico e paganesimo, Risorgimento laico e Pio IX, Stato etico e battaglie di Lepanto, socializzazione di massa e maghi Otelmi. Tu non sei fascista, tu – proprio come i missili-antimissile – sei solo “anti-antifascista” (che poi a noi le cose stiano bene anche così – basta che lo fai tu, il lupocattivo – non sposta d’una virgola la questione).
Dice: “Vabbe’, ma allora con questi che bisognerebbe fare?”. E che vuoi fare? Niente.
Tu, se sei democrazia, li devi lasciare completamente liberi di dire e di pensare quello che gli pare. Sennò che democrazia sei? Solo quando pare a te? Non ci sono mezze misure: o sei democrazia o non lo sei. Quello che potresti fare – al massimo – è educare un po’ meglio i cittadini, dando loro gli strumenti critici, facendoli studiare e dandogli la possibilità di capire ciò che è vero e ciò che è falso, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato (anche se nello specifico l’eventuale ignoranza o confusione loro, sulla questione fascismo/antifascismo è direttamente speculare alla tua, visto che credono d’essere esattamente ciò che tu credi siano). Ma se poi uno volesse restare ugualmente ignorante, be’, in democrazia non è che ci puoi fare molto, gli devi lasciare pure la libertà di restare ignorante.
Quello che però dovrebbe essere chiaro - in uno Stato democratico – è che l’uso della forza è severamente vietato e precluso ai privati. Ognuno può dire e pensare – e senza limitazione alcuna – quello che gli pare, ma l’unico ente abilitato all’esercizio della forza è la Forza Pubblica e basta. Nessunissimo altro. Questo significa che io posso forse pure dire “Farò le barricate”, e tu me lo devi lasciar dire. Ma se solo ci provo a farle per davvero, tu mi devi venire a gonfiare di botte di santa ragione senza pensarci un minuto solo. Su questo non si scappa. E sennò che cazzo ci sta a fare la Forza Pubblica? Dove va a finire la convivenza civile? Sub lege libertas: solo lo Stato può garantire indistintamente i diritti di tutti. E mica è il Far-West. Se per esempio lo Stato sbaglia e – nelle vesti di un suo agente – uccide inopinatamente un privato, magari tifoso di calcio, deve essere lo Stato stesso ad ammettere immediatamente il suo errore e punire l’agente. Ma se altri tifosi si riuniscono a centinaia davanti a uno stadio e cominciano a mettere a ferro e fuoco l’intero quartiere d’una città, allora lo Stato deve uscire con tutta la sua forza e fargli passare ogni più minima voglia. E mica gli puoi consentire di fare come gli pare, di incendiare le macchine e magari d’assaltare pure tre caserme della Forza Pubblica. E dove mai s’è visto? Ma che sei scemo? E che fine fa, allora, la certezza del diritto e dell’ordine democratico? Mica sei lo Stato di MariaCazzetta.
Dice: “Vabbe’, mo’ io non so che cosa intendi tu con questo senso dello Stato, ma a me mi pare che il nostro non sia esattamente questo”. Eh, lo so: uno che dovrebbe dire, per esempio, quando la polizia mena solo gli operai che vanno a dimostrare davanti alla Confindustria, o in Parlamento si menano e si sputano fra loro, i ricchi hanno i gorilla e le scorte private, delle leggi non gliene frega niente a nessuno, anzi, si fanno le leggi ad personam, i giudici fanno politica, entrano ed escono dal Parlamento, mo’ fanno i deputati e la volta dopo ritornano a fare i giudici, t’assolvono o ti condannano a seconda di chi capiti sotto, l’anarchico Pinelli dicono che s’è buttato da solo, i furbetti del quartierino li incastrano però nessuno fa vedere le intercettazioni dei nemici o concorrenti dei furbetti, se a casa del designatore degli arbitri ci vanno i dirigenti della Juve o del Milan è Calciopoli ma se ci vanno quelli dell’Inter non è un cazzo?
Dice: “Vabbe’, ma questo che c’entra con Nazirock e Forza Nuova?”. Eh, c’entra, c’entra. Mettici pure, se vuoi, i conflitti d’interessi, gli atei-devoti, gli antiabortisti che hanno abortito, i divorziati che si battono col sangue agli occhi per la sacralità della famiglia altrui, gli antiputtanieri che vanno a puttane, i bugiardi, i leccaculi, i leghisti contro l’assistenzialismo al Sud però Malpensa non si tocca, gliela debbo pagare io sennò bossi fa la rivoluzione, l’immondizia per le strade, pecoraro faccia di pietra, i poveri più poveri, le truppe mastellate, la mercedes di dipietro, la moglie di dini, gli infortuni sul lavoro, i rivoluzionari al cachemire, i porta a porta, i professori somari, i comunisti-religiosi, i marxisti-luddisti, i leninisti-gandhokennedyani, il cazzochetisifrega. Ma che sei una democrazia, tu? Ma fammi il piacere va’: vai a fare in culo. Quanta auctoritas ritieni di avere più di loro? Sono il tuo alibi. Ti servono come il pane. E pure tu circoli libero e giocondo solo in forza della legge Basaglia.
Antonio Pennacchi
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:
A. VAN GENNEP, I riti di passaggio, Torino 1988 (I ed. 1909).
R. ZANGRANDI, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Milano 1998 (I ed. 1947).
R. DE FELICE, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino 1993 (I ed. 1961).
A. MILANO, Storia degli ebrei in Italia, Torino 1992 (I ed. 1963).
DE FELICE. R., Le interpretazioni del fascismo, Roma-Bari 1997 (I ed. 1969).
G. L. MOSSE, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), Bologna 2000 (I ed. 1974).
V. CASTRONOVO, Giovanni Agnelli, Torino 1977.
A.J. GREGOR, Young Mussolini and the Intellectual Origins of Fascism, Berkeley 1979.
G.L. MOSSE, L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, Roma-Bari 1999 (I ed.1980).
V. CASTRONOVO, L’industria italiana dall’ottocento a oggi, Milano 1980-1982.
Z. STERNHELL, Nascita dell’ideologia fascista, Milano 1993-2002 (I ed. 1989).
E. GENTILE, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Roma-Bari 2001 (I ed. 1993).
P. BUCHIGNANI, Fascisti rossi. Da Salò al Pci, la storia sconosciuta di una migrazione politica. 1943-53, Milano 1998.
A. PENNACCHI, “Fascio e martello: il fascismo come dittatura del proletariato” in LiMes 3, 4, 5, 2002, ora in: Id.,Viaggio per le città del Duce, Asefi, Milano 2003.
Id., L’autobus di Stalin e altri scritti, Vallecchi, Firenze 2005.