Intervista Ianva
Testata: WELTANSCHAUUNG
Data:9 dicembre 2012Tipologia: Intervista
Locazione in archivio
Stato:Solo testoLocazione: ASMA-Archivio digitale RS,ASMA-Archivio digitale RS,Welranschauung 2012-12-09
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9/12/2012
Gli Ianva sono un collettivo artistico genovese composto dall’amalgama di musicisti di diversa estrazione musicale, raccolti attorno alla figura centrale di Mercy.
La loro proposta è passionale, cantautoriale e difficilmente catalogabile, sin dalla loro nascita hanno saputo coniugare una vena marziale/neofolk con la canzone d'autore italiana.
Eccoci con Mercy, che innanzitutto ringraziamo per la gentile disponibilità.
Italia 2029, lo scenario da voi descritto è molto vicino alla realtà, anzi persino lontano, vista la già attuale imbarazzante tecnocrazia insidiatasi.
Oggi, 4 novembre 2012, come ridefiniresti il concetto di Azione, qual è per te il ruolo dell' “uomo differenziato”?
Si parte subito a testa bassa, a quanto vedo! Questa, almeno per quanto mi riguarda, è la domanda delle domande. Tutti hanno capito o stanno capendo che, attraverso le prassi consuete, le cose non faranno che peggiorare, ma, nello stesso tempo, nessun margine di azione diretta appare più praticabile. In verità le cose sono anche peggio di quanto sembrano. L'azione, a mio avviso, non è più ridefinibile. Non solo mancano le risorse: economiche, ideali, antropologiche, ma addirittura la dimensione fisica entro cui l'azione possa articolarsi. Inoltre manca il progetto, l'idea-mondo a cui un'azione che richiede, come minimo, la messa in gioco della vita dovrebbe tendere.
Infine manca un fondamento più sottile, ma assolutamente cruciale che è di tipo psicologico e culturale, anche se, in fondo, queste sono categorizzazioni parziali. Stiamo parlando, in una parola, di immaginario.
Non cogli la sensazione di finzione, d'improbabilità, che si sprigiona da questi concetti non appena si trasformano in parole messe nero su bianco? Che atmosfera d'inverosimiglianza, a metà tra il delirio e il gioco infantile stiamo alimentando? Chi sarebbe pronto a credere che simili inquietudini possano trasformarsi in motori della Storia? Riesce la media dei nostri contemporanei a concepire un tempo e un mondo dove lo sono state? Eppure è da lì che arriviamo tutti. Oggi sembrano, tutto al più, materiale da fiction ed è così che ho deciso di trattarle.
La sfida potrebbe essere questa: contro-narrare il tempo presente. Attenzione: non sto parlando di contro-informazione, ma di contro-narrazione. Sono due concetti molto diversi.
Attraverso la comunicazione hanno abolito la Storia e, dunque, la facoltà delle volontà individuali di concorrervi. La storia è il terreno elettivo dell'Azione, abolita l'una hanno reso impraticabile l'altra. L'unica speranza consisterebbe nell'interrompere l'ipnosi per permettere l'irrompere della Storia e, con essa, delle ragioni dell'azione.
Serve un lavoro poderoso sull'immaginario che durerà, temo, generazioni.
Nei vostri testi si possono trovare, seppur in maniera differente, delle affinità con le tematiche care agli sloveni Laibach. Il totalitarismo moderno, viene visto non in antitesi con la società liberal/capitalista bensì come un altro fenomeno di massa il cui sviluppo è destinato ad una semplice struttura burocratico-amministrativa. Eppure, oggi tutto ciò che non è democrazia viene superficialmente bollato come “fascista”. Come si è giunti secondo te ad una tale pochezza di vedute?
E' la logica conseguenza di un processo storico. Da un lato abbiamo una sola ideologia superstite e trionfante tra quelle che si sono affrontate sul campo novecentesco. Dall'altro, una sofisticazione e un potenziamento degli apparati preposti alla sua salvaguardia, in particolare nel comparto della comunicazione e della propaganda, quali mai si erano avuti nella storia. La tentazione di ergersi a dogma indiscutibile, a forma definitiva di ordinamento sociale è stata, negli ultimi decenni, il solo vero motore delle dinamiche umane.
Il liberal-capitalismo, oltre a rivendicare per sé la guida dei processi economici, ha preteso e ottenuto, per assenza di competitori, anche una sorta di colonizzazione delle anime. L'idea di democrazia che viene continuamente propugnata attraverso gli organi d'informazione è considerata, all'interno delle cerchie che contano, un patetico ferrovecchio, un reperto da museo che, tuttavia, è necessario investire attraverso la comunicazione di un'oggettività del tutto illusoria. In realtà, come tutti i dogmi, l'unica ideologia rimasta ha finito per esprimere una sorta di sinedrio intoccabile, i cosiddetti “mercati” e i loro deus ex machina.
Quando ci accusano di indulgere a fascinazioni totalitarie replico, e solo se è il caso, con un tridente di argomentazioni.
La prima: che mi rifiuto di prendere in considerazione le obiezioni di chi ancora non ha compreso che dentro un totalitarismo ci vive già. Chi dorme sonni tanto profondi e si dimostra ipnotizzabile al punto da credere di vivere tempi normali, perde, a mio avviso, ogni facoltà di obiezione.
La seconda: che questo totalitarismo è di gran lunga il peggiore che si sia mai visto perché non riguarda un solo popolo e poi, semmai, come effetto collaterale altri, ma l'intera biosfera o, per semplicità, tutto il vivente.
La terza: io chiedo quale totalitarismo, anche il più brutale, è giunto al punto di negare a un paese “indebitato” come la Grecia, la fornitura agli ospedali di farmaci antitumorali. Ha pensato di privatizzare persino i paesaggi o il patrimonio artistico. Ha sottoposto a un regime di usura, degno dei peggiori cravattari da bassofondo, intere popolazioni al punto che c'è chi si inguaia con gli usurai veri, magari indirizzato dalle stesse banche, per poter pagare le tasse. Che costringe anziani a lavori usuranti e che, venute meno le forze, li scarica a casa senza pensione e senza stipendio in perfetti termini di legge. Che accusa di anti-democrazia tutto l'altro da sé, ma poi avverte che le sole vere elezioni che contano le fanno i mercati.
Complimenti per il vostro ultimo disco “La Mano di Gloria”, crediamo che alcuni pezzi siano tra le cose più belle che abbiate mai composto. A questo proposito, ci interessava approfondire con te cosa ha ispirato il testo della magnifica “Portatori Del Fuoco”.
Vi ringrazio. Pensa che c'è stato chi ha scritto che il lavoro faceva schifo prima ancora che uscisse effettivamente. Questo disco può fregiarsi dell'onore di aver tenuto a battesimo anche una nuova tipologia di “critico”: il blogger chiaroveggente in grado di dissertare sul nostro irreversibile “scadimento qualitativo” prima ancora di aver potuto ascoltare una sola nota. Miserie italiote a parte, il pezzo che citi è nato in modo piuttosto atipico anche per noi. Il problema consisteva nel riassumere e comprendere in una sola composizione fatti e concetti che nel libro si prendono un numero consistente di pagine. Rispettare lo schema narrativo e tutte le considerazioni relative al concetto di “azione senza ritorno” era pressoché impossibile, quindi sono ricorso alla metafora della tauromachia. Dove, naturalmente, il ruolo positivo è incarnato dal toro che lotta per la sua vita e che, contro ogni previsione, capovolge il pronostico iniziale. Tra l'altro la moderna corrida è solo un pallido riflesso, corrotto e vile, della vera tauromachia. Del tutto allineato a ciò che resta di attingibile, da parte dell'uomo di oggi, dell'antico spirito che l'aveva ispirata.
Nei giochi sacri che venivano disputati in primavera, durante l'età minoica, giovani di ambi i sessi si cimentavano con questa pericolosa disciplina che consisteva nel compiere spericolati volteggi e spettacolari acrobazie sul dorso di tori infuriati. Dovrebbe far riflettere il fatto che, in quel tempo, anche le esili ragazzine o le eleganti dame cretesi, ben acconciate, ingioiellate, ma a seno nudo, affrontassero colossali tori senza che, alla fine, nessuno, né umano, né animale ci rimettesse la vita. Mentre gli odierni, virilissimi, “campioni di coraggio” nella corrida affrontano animali storditi dai barbiturici, feriti preventivamente alle zampe, con gli occhi spalmati di vaselina e semi-dissanguati dalle banderillas. Il rovesciamento di prospettiva e, in definitiva, il capovolgimento valoriale mi sembra molto nitido. Il pubblico delle moderne corride sa bene come l'animale sia, in realtà, ridotto ai minimi termini prima ancora di scendere nell'arena, ma malgrado ciò saluta la sua uccisione con entusiasmo. Possiamo dire, anzi, che la esige. Il giovanetto minoico o la ragazza che dovevano contrapporre solo tempismo, agilità e grazia alla forza primordiale, dovevano fare anche in modo che non fosse necessario abbattere l'animale per salvare loro la vita nel caso di un'esecuzione errata, altrimenti la cerimonia poteva essere dichiarata fallita. Tutto questo, nota bene, in un mondo che non avvertiva alcuna necessità di dichiararsi garantista e umanitarista ogni due minuti.
Faticate a suonare in Italia, ma quando c’è l’occasione i risultati sono straordinari. Mi riferisco al concerto di Firenze del 2 Giugno scorso. L’alchimia che riuscite a trovare tra voi sul palco è sorprendente, quanto vi appaga l’esibizione live?
Quella del palco è un'esperienza che ognuno vive a modo suo e, dunque, a rigore del vero dovrei parlare solo per me. Ma posso dirti che esistono diversi aspetti relativi al momento live che accomunano tutti noi. La prima, nel caso tutto fili liscio, è la soddisfazione di avere compiuto il proprio dovere e di avere svolto bene un compito che ci è stato assegnato. E' un concetto, questo, che potrà far sorridere qualcuno, ma io so che è così: ogni artista che, di questi tempi, sia disposto a correre qualche rischio per le sue opinioni è, idealmente, come investito da una responsabilità superiore. Vedi, a differenza di tanti colleghi che posano da modesti e da scettici, previo poi dimostrare nei fatti e nel presunto anonimato vanaglorie e malmostosità da primedonne isteriche, io non rigetto la qualifica di artista, anzi la rivendico. La prima, logica conseguenza di questa affermazione è il dovere che avverto di esserne all'altezza. E per esserlo c'è un solo modo: offrire, nell'esposizione nuda e cruda della propria arte, una rappresentazione coerente con le sue premesse teoriche. Quello del concerto è, per così dire, il momento della verità. Lì si torna a misurare il valore delle cose con il metro dell'oggettività. In questo senso l'esperienza è davvero appagante come sempre lo è la verità quando riesce ad affermarsi.
In una recente intervista, quasi in maniera Kafkiana, affermi che “Non conosciamo le nostre prospettive individuali, salvo forse che vivremo schiavi di lavori atroci e ostaggi di un sistema infernale fino all’ultimo dei nostri giorni”
Credi dunque che attualmente nel nostro microcosmo ci si debba ridurre a piccole azioni di sabotaggio del modus vivendi dell’uomo contemporaneo?
No, credo che persino le piccole vendette consumate di soppiatto siano un meschino lusso che il miserrimo uomo contemporaneo non può più permettersi. Ne va della sussistenza. Il problema è che, da singoli individui, si può unicamente cercare di mantenere viva e pulita la deandreiana “goccia di splendore” dentro di sé. Una sorta di sezione aurea interiore. Le rivoluzioni invece, pur nascendo in genere dall'ideazione di pochi, necessitano di un popolo per essere fatte. Per questo si sono dati tutto questo gran da fare per minare e disperdere i popoli. E' perfettamente logico e coerente e davvero non mi spiego come l'accusa di complottismo funzioni ancora tanto egregiamente come deterrente alla luce di una simile evidenza.
A parte ciò, si dice in giro che mi vergognerei di ciò che faccio per campare. Ebbene, mi occupo della rimozione e del trasporto di rifiuti speciali e pericolosi e, per quanto possa freddamente supporre, non passeranno molti anni prima che venga il tempo di dare, come si dice a Genova, la mia schienata nella fossa. Ma tutto questo non influisce più di tanto sullo stato d'animo che tu hai ricordato: certi membri della band fanno lavori altamente qualificati, ma sono frustrati e impazienti lo stesso. Il problema è che nessuno di noi sente più di lavorare per se stesso: siamo chiamati a concorrere, a prezzo di liquidazione, al funzionamento e alla perpetuazione di un meccanismo che fa orrore a tutti. E chiunque, più o meno lucidamente, avverte la sensazione che questo meccanismo non è più il mezzo, ma il fine. Il mezzo siamo diventati noi: sacrificabile, deperibile, sprecabile, per dirla con Pietro Jorio.
Se dovessimo scegliere un libro che rappresenti meglio la matrice ideologica che traspare dalla proposta musicale di Ianva, sceglieremmo sicuramente “Il Trattato Del Ribelle” di E. Junger.
Oltre che ideologicamente, anche da un punto di vista prettamente tecnico. Mi riferisco al vostro “rifiuto” per l’elettronica, il rumorismo, l’industrial. Junger sosteneva che la tecnica è stata la vera vincitrice della guerra, spiegava come essa abbia asservito tutti, in ogni ambito.
Quanto ti senti vicino al ribelle Jungeriano?
Non è del tutto vero che rifiutiamo l'elettronica, il rumorismo e l'industrial: sottotraccia, i nostri dischi ne sono infarciti. Ciò che, invece, vediamo con molto sospetto è la pretesa di alcuni “artisti” o cerchie rifugiati sotto quelle insegne, di valutare il lavoro altrui secondo un metro che era si di rottura, ma trenta o quarant'anni fa, quando loro non erano ancora nati. In quel tempo, per ottenere un suono, era giocoforza mettere a punto anche la fonte che lo produceva. Oggi, basta un programmino crackato che gira su un normale PC. Registrare la tua lavatrice che fa la centrifuga, scaricare il suono in traccia audio, mandarla in saturazione, poi stampare trenta copie CDr e corredare il tutto con una bella foto di Auschwitz o della fidanzata legata e imbavagliata con il culo per aria è ancora Arte? Non so voi, ma io avanzo senz'altro le mie riserve.
Quanto a Junger, lo sento vicino nella misura in cui un'indole tendenzialmente libertaria come la mia deve, da un certo punto in poi, accettare la realtà del fatto che l'assenza di un ordinamento o di uno stato non è la condizione per l'instaurazione di una perfetta libertà, ma la più certa garanzia per perdere anche la poca di cui ancora disponiamo. La presenza di un ordine iniquo non è una buona ragione per preferire il caos e l'unica vera legge naturale che è quella del più forte.
L'utopia anarchica è stata per lungo tempo fascinosa e, per molti versi, un veicolo intellettuale potente per il progresso del pensiero. Ma i limiti di una dottrina nata in epoca di monarchie assolute e di dispotismi e che ora si ritrova a contrapporre alle sofisticatissime tecnocrazie che ci schiacciano analisi e alternative antiquate e puerili, sono ormai impietosamente sotto gli occhi di chiunque.
Junger, che nel primo conflitto mondiale aveva molto giustamente ravvisato l'avvento di una nuova era in cui l'uomo e tutti i suoi attributi naturali avrebbero dovuto soccombere alla forza bruta esercitata dal “materiale” e dalla tecnica, si era spinto, in seguito, anche molto oltre. In particolare a comprendere come il moltiplicarsi del coefficiente di complessità tecnica all'interno di una società avrebbe finito per determinare l'instaurarsi di un'oligarchia tecnocratica, del tutto incompatibile con i presupposti teorici della democrazia. Il problema è chiaro: le competenze tecniche non si acquisiscono attraverso una consultazione elettorale. Anche il più plebiscitario dei responsi usciti dalle urne non fa comunque di un incompetente un luminare. Il guaio consiste nel fatto che questo tipo di società necessita di un'auto-narrazione costante, di cui il dogma democratico è uno dei fondamenti basilari. Dunque che accade? Esattamente ciò che stiamo vivendo oggi: una finzione di democrazia che si consuma e si esaurisce negli apparati della comunicazione, con i veri poteri accentrati in cerchie ristrette di specialisti non soggetti a interferenze da parte della cosiddetta volontà popolare. Specialisti, peraltro, auto-accreditati e cooptati all'interno di cerchie riservate. E che, comunque, dovessero essere valutati dai risultati, meriterebbero come minimo lo squartamento.
In quest'ottica, la via del ribelle jungeriano è senz'altro la più logica tra le contrapposizioni disponibili anche se, temo, oggi potrebbe essere non più sufficiente.
Oggi più che mai, abbiamo sempre più custodi della democrazia, dell’egalitarismo, del progresso e dello scientismo. Quanto è dura per una artista come te, ad ogni espressione estetica o letteraria, dover sempre stare attento a tali forme mentis invadenti che affibbiano etichettine ideologiche ovunque e che tentano sempre mediocri mediazioni?
Guarda, la maggior parte dei problemi, se così si possono definire, non li abbiamo certo avuti dagli aedi dello scientismo, dai bigotti dell'egualitarismo o dagli invasati del progresso. Gli schizzi di liquame che ci sono arrivati addosso se ne sono dipartiti da una fetidissima cloaca che è tutta interna al nostro cosiddetto ambiente. E' lì che si annidano i soli, veri casi di subumanità in cui mi sia imbattuto.
Con questo non voglio dire che non esista una censura e una sorta di congiura del silenzio da parte dei grandi media verso tutto ciò che non è allineato con i presupposti ideologici che hai elencato, ma in questo trovano nella “scena” volenterosi alleati e utilissimi idioti pronti, con il loro agitarsi, a ricondurre ogni avanguardia dissidente alla palude.
Nel mio personale caso, poi, pago moneta sonante anche certi miei tratti temperamentali. Contrariamente ad altri, infatti, che investono larghissima parte del loro tempo a leccare terga a destra e a manca, io preferisco investire il poco che la vita quotidiana mi lascia in attività più interiormente appaganti.
Capisco l'esigenza del promuoversi e, infatti, con una parte della critica, quella da più tempo sulle barricate e fatta autorevole da militanze pluridecennali, abbiamo un rapporto molto franco e cordiale. Semplicemente riconosco la loro legittimità a giudicare il mio lavoro allo stesso modo in cui loro riconoscono la mia ad esprimermi. Ma da qui a mettersi a scodinzolare davanti a qualunque ignorante che si alza la mattina e apre un blog, a qualunque “agitatore culturale” senza cultura o a ogni “critico musicale” diciannovenne che non ha un solo disco originale in casa, ce ne passa.
Il fatto è che me ne frego. Interloquisco con chi valuto all'altezza, anche solo per l'educazione dimostrata, o con gente da cui ho solo da imparare. Almeno fintanto che la mia sussistenza non dipenderà dai critici, posso permettermi di fottermene in eguale misura dell'ostracismo del Solone radical-chic di “Repubblica” e della malafede dell'anonimo bloghettaro fascio-mimetico che, nel 99% dei casi, “produce musica” dal PC della sua cameretta. Non c'è alcuna ragione stringente che possa costringermi a convivere con questo ciarpame, anche se dubito che riuscirei ad adulare certa gente pur se ne andasse del pane.
Un altro brano de “La Mano di Gloria” che svetta è “Alta Via”, riferito al sacro luogo ligure. Quanto sei interessato all’alpinismo come ascensione, come via per il superamento dei limiti della condizione umana?
Da ragazzo sono stato un promettente alpinista. Avevo anche iniziato ad arrampicare free, ma poi, sono prevalsi altri interessi. Evidentemente non ero così versato per il superamento dei miei umanissimi limiti. Sono stato anche un valido portiere di calcio: fino ai quindici anni tutti erano certi che sarei finito nel professionismo e invece... Il fatto è che in ogni disciplina sportiva comporta, anzi, dovrebbe comportare una dedizione e un atteggiamento mentale quasi monacale. Non voglio dilungarmi su ciò che è diventato oggi lo sport professionistico, anche perché è sotto gli occhi di tutti. Ma faccio notare che il nostro ultimo disco è dedicato a due personaggi dissimilissimi tra loro, a partire dai rispettivi campi in cui si svolsero le loro vite e brillarono le loro rispettive eccellenze. Uno è Herbert Pagani, un artista veramente colossale, oggi indecentemente dimenticato. L'altro è Walter Bonatti che era, a partire dall'aspetto esteriore, l'incarnazione vivente di tutto quanto vi è di epico ed eroico nella scelta della “via delle vette”. Un uomo, a ben vedere, sorprendentemente pacato e modesto, come solo sa essere chi è conscio che l'entità della sua sfida trascende le miserie comuni e le meschinerie umane. Ma l'obiettivo finale di una vita come la sua non credo sia un protervo superomismo, un aristocratico distacco, venato di disprezzo, dai propri simili quanto, piuttosto, il conseguimento di una pienezza e di una completezza interiore che non può essere che perseguito in solitudine, lontano dal clamore della mondanità. Alla fine il limite, il nemico è sempre lo stesso: la paura. Innalzare il livello della sfida equivale a moltiplicare la distanza tra sé e questo limite comune a tutti.
Non ti facciamo una domanda sulla degenerazione delle arti, ma qual è secondo te la funzione dell’arte contemporanea? Essa deve “limitarsi” a contrastare l’uomo contemporaneo o può aspirare ad altro?
Fino a pochi anni fa avrei trovato letteralmente odiosa l'idea stessa che l'Arte, per essere davvero tale, dovesse a sua volta riconoscere l'esistenza di un limite. Non dissimilmente da qualunque altro mio contemporaneo ho assorbito e condiviso a lungo molti degli stereotipi della mia epoca. Uno dei più tenaci, poiché affonda le sue radici in temperie culturali vecchie di almeno un paio di secoli e, da allora, non ha fatto che auto-alimentarsi riguarda la correlazione, percepita come indissolubile, tra il concetto di Arte e quello di trasgressione. Il che non è stato necessariamente un male, almeno fino a quando una parte consistente della società ha opposto il più ottuso immobilismo a qualsiasi ipotesi di innovazione. Dunque, le Arti, nel loro opporsi al conservatorismo, si ponevano in qualche modo come una forza fiancheggiatrice di una più vasta e profonda domanda di libertà e di estensione dei diritti che promanava dalle forze sociali.
Oggi, l'idea di trasgressione, ma anche lo stesso concetto di progressione, riguardano, tutto al più, la sfera della comunicazione e ancora più spesso, quella del gossip. Il cosiddetto progresso si è rivelato una macchina prodigiosa per generare incubi e, di conseguenza, l'insistenza, come puro rictus, pigrizia mentale, indisponibilità ad assumersi la fatica di ripensare al proprio ruolo da parte degli operatori artistici ha assunto un carattere oggettivamente sgradevole. La trasgressione, l'irrisione del tradizionale, la voluttà del degrado sono diventate non solo socialmente accettate, ma anche la condizione iniziale per sperare di essere presi in considerazione dall'ingranaggio dei media culturali. Nel frattempo, le pretese rivoluzionarie estese al sociale sono finite in soffitta e oggi si “trasgredisce” con l'occhio fisso sui listini di mercato e, nel caso si guadagni bene, s'investe off shore. Che meschina fine: da ingranaggi immaginativi della macchina rivoluzionaria a semplici degenerati e, per di più, religiosamente supini ai “mercati” e prudenzialmente attenti al politically correct. Davvero non riesco a immaginare soggetti umani peggiori. I delinquenti comuni e le puttane da strada credo siano enormemente più rispettabili.
Quindi, a mio avviso, l'avanguardia artistica dovrebbe avere il coraggio di imboccare risolutamente la direzione opposta e qualunque artista che tenga alla propria onorabilità dovrebbe rifiutarsi di perpetuare questa farsa. Non c'è più alcuna rispettabilità borghese da demolire, nessun accademismo ingessato, nessuna grettezza conservatrice che cristallizza il gusto. Ciò che, invece, andrebbe demistificato sono tutte quelle categorie del contemporaneo che alimentano l'illusione della libertà, dell'apertura, dell'inclusione, del melting pot e di tutte le altre stronzate. Il fatto che alcuni artisti siano liberi di irridere tutto e tutti, di vituperare la religione (sempre la stessa, con le altre non ci si provano), di inneggiare al trans-umano non significa affatto che i popoli siano più liberi di prima. Anzi, è esattamente vero il contrario.
Abbiamo letto che pubblicherai il tuo primo libro. Trattasi di un romanzo o di un saggio? Cosa puoi dirci in merito?
E' un romanzo, con un impianto molto classico, addirittura riecheggiante i cicli epici. Ma, narrando vicende che prendono le mosse dal contemporaneo, il principio di verosimiglianza mi ha imposto di tratteggiare gli estremi di un intero mondo e, per quanto possibile, di fornirne delle basi teoriche plausibili. Questo, inevitabilmente, ha finito per produrre diversi capitoli ai limiti del saggistico, il che basterebbe a qualche, eventuale, critico tradizionale per denunciarne l'ambiguità e l'ineleganza formale. Potrei capirlo: la grande narrativa su cui ci si forma, quella di impianto classico, ottocentesco, presuppone una netta distanza tra narratore e cosa narrata, si muove in un mondo oggettivo di ambienti e figure dove il ruolo del soggetto consiste in una serie di reazioni relative alle circostanze. In questo senso le azioni sono conseguenti a ciò che i sentimenti dettano e tutto è perfettamente oggettivato, i personaggi sono autonomi, la situazione narrativa è ambientata scrupolosamente nel tempo e nello spazio. Il narratore, dal canto suo, dovrebbe situarsi al di fuori della macchina narrativa o, al massimo, affacciarsi nelle descrizioni o nelle riflessioni. Basti pensare che, almeno per quanto riguarda la prosa italiana, uno dei moduli d'intervento diretto ancor oggi più sfruttati e, in verità, di efficacia quasi infallibile risale addirittura a Manzoni, con le sue ironico-garbate intrusioni riflessive.
Tutto questo ho voluto a tutti i costi mantenerlo. Passate le mode dell'estremo rigore realistico, di stampo militante, del soliloquio esistenziale e intimista, della prosa raggelata ai limiti dell'afasia tanto cara all'intellighenzia radical-chic, alle fine, il romanzo, come impianto letterario, è ancora quello di Balzac e Dostoevskij.
Solo che molti narratori contemporanei, penso per esempio a Houellebecq o a Zinove'v, per non parlare di Foster Wallace che era straripante o, al contrario, del molto più misurato, ma non meno intrusivo Bolano, talvolta avvertono l'esigenza di scendere sul campo del loro stesso narrato. Da dove nasce questa esigenza? A mio avviso dalla ritirata di altri soggetti professionali. In altre parole il narratore tende a sostituirsi parzialmente al saggista perché da tempo non si fida più dei linguaggi “iniziatici” dei sociologi e degli economisti e, tantomeno, si fida degli analisti di cronaca. Ogni qualvolta un narratore contemporaneo si ritrova a dovere oggettivare la realtà, si ritrova a confidare unicamente in se stesso, essendo queste categorie professionali largamente colluse con il mondo dell'informazione e, di conseguenza, osservanti gli schemi narrativi del reale dettati dagli apparati.
Penso, nel mio piccolo, di avere compiuto un'operazione analoga: un romanzo d'impianto classico che, prendendo le mosse dalla realtà, necessita, per oggettivarsi, di interpretazioni di questa realtà che non siano quelle correnti e autorizzate. Con incursioni, qua e là, nella narrativa di genere: horror, complottistica, spionistica e via dicendo: tengo molto a rimarcare i miei gusti popolari, anche se si tratta di una dimensione popolare di quarant'anni fa.
Canti “Invocare il sipario è normale, se una farsa è durata abbastanza”, tuttavia, nonostante la presa di consapevolezza, gli slanci reazionari non cessano mai, neppure in una situazione a nostro avviso non raddrizzabile se non ripartendo da un punto zero. Come vedi, al di là degli schieramenti politici, eventuali nuovi movimenti d’azione? C’è, secondo te, qualcuno ad oggi in grado di avere un minimo di chiarezza e profondità di vedute? Se non Italia, anche nel restante occidente..
Dipende cosa intendiamo per occidente. Anche il Brasile è occidente o il Venezuela. Il Sudafrica. C'è la Turchia che è, a tutti gli effetti, un paese cerniera. E poi, la Russia che, comunque, rientra nel mondo “bianco”. Poi ci sono i neo-occidentali, per trazione socio-economica: la Cina, l'India, il solito Giappone che, presto o tardi, presenterà il suo conto... In realtà, al di là di ciò che resta di tradizionale, l'intero mondo, oggi, è tecnicamente “occidente”, se si eccettua l'area islamica e neppure del tutto. E tutti, tranne noi europei e, in particolare, gli italiani, hanno le idee chiarissime su chi sono e su dove intendano andare. Innanzitutto verso una destinazione ormai vitale dal punto di vista di tutti, ma che, per noi europei, o meglio per i politici che ci rappresentano e per l'informazione che ci narra, non è neppure nominabile: un mondo libero dall'egemonia di una superpotenza criminale, ossia gli USA. Dirò di più: gli Stati Uniti sono attualmente oltre lo status di nazione canaglia: sono un mostruoso conglomerato di tecnologia distruttiva, economia delinquenziale e psicopatia collettiva. L'auto-percezione che questa nazione ha di se stessa sembra uscita da un incubo e la sua classe dirigente è composta, per lo più, da tarati psichici e da veri degenerati.
Tutti, dicasi tutti, sono consapevoli di ciò e sanno che, presto o tardi, si arriverà al dunque. Il problema è tutto lì: c'è un'evidenza colossale, mostruosa, immane come dieci catene dell'Himalaya messe l'una sull'altra, ma in Europa non si può dire. O meglio, non si può dire laddove servirebbe, ma quei contesti sono interamente occupati da gente che se ne guarda bene, perché fa loro comodo così.
Quindi non uno di queste centinaia di migliaia di parassiti che ci succhiano il midollo con il pretesto dell'Europa è realmente interessato all'Europa. Se lo fosse direbbe la verità o, quantomeno, consentirebbe ad altri di dirla. Invece siamo arrivati al punto che le agenzie stampa falsificano deliberatamente le traduzioni degli interventi di capi di stato alle Nazioni Unite o il testo dei comunicati ufficiali. Io, per sapere cosa ha detto effettivamente Ahmadinejad in lingua Farsi, devo ricorrere alla dissidenza in rete perché le agenzie di stampa occidentali forniscono invariabilmente versioni di comodo.
Quindi, non solo non esiste altro progetto politico in Europa che non sia il servaggio a Goldman-Sachs, al punto di far nominare da loro direttamente i governi nazionali, ma è stata anche concepita una macchina mostruosa per il controllo delle opinioni e l'occultamento della verità. Anche gli altri europei non stanno poi messi meglio: i tedeschi, che credono che i loro eventuali guai potrebbero derivare dalle “cicale mediterranee” o dai quei poveri greci che tra poco saranno ridotti come il Bangladesh degli anni '70, dimostrano di avere capito anche meno di noi.
Ma altrove, lo ripeto, non c'è tutta questa disponibilità al nanismo politico e all'irrilevanza.
La Russia si avvia a tornare una super-potenza e, a meno non vogliano arrischiare un conflitto nucleare, cosa non del tutto esclusa visto il gran numero di talmudisti e cristiani rinati in attesa dell'Armageddon che siede nel congresso americano, non c'è nulla che possa impedirlo.
La Turchia, grazie a Erdogan, un vero statista come qui, in mezzo alla marmaglia di ignoranti, plebei, mignotte e subnormali da cui ci facciamo vessare, abbiamo dimenticato persino l'esistenza, gioca sui più tavoli e persegue un disegno egemonico molto coerente, di stampo neo-ottomano.
Il Brasile che, in capo a meno di vent'anni sarà la seconda potenza economica mondiale, aggressivamente capitalista all'esterno e lucidamente socialista e protezionistica all'interno, con la finanza internazionale fuori dalle balle. Si potrebbe continuare. In realtà tutti hanno un progetto, osservano un percorso di civiltà, rivendicano una missione storica, tranne noi. L'unica speranza, che è poi quella che narro nel libro, è che queste potenze emergenti diventino abbastanza forti e salde da passare all'attacco e inizino a finanziare e a fornire supporto tecnologico a organizzazioni di dissidenza interna, in Europa. Ma queste ultime, prima, dovrebbero almeno esistere. La gente, esasperata, che vediamo scendere in piazza non è un movimento e non risponde a un progetto. La disperazione, per quanto degna di rispetto, non produce necessariamente un'Idea.
Cosa intendi esattamente quando parli di “anacronismo attivo”?
Un tipo di società come questa deve, per esistere, necessariamente scollegare le culture dalle proprie radici. Il modello a cui tendono è quello dell'”umanaio globale”, fatto di masse in gran parte inurbate in megalopoli, ridotte a vivere alla giornata in una sorta di non-tempo, senza nozione dell'idea di comunità e senza memoria. Questo il traguardo. Il passaggio, che è quello che stiamo vivendo, presuppone la costruzione di una corrente d'opinione specifica, la quale, perseguendo scopi poco confessabili, non è naturalmente identificata né, tantomeno, denominata. Io l'ho definita “attualismo”. Si tratta, in sintesi, di estendere il sentimento di “contemporaneità” fino a conglobare il senso stesso della Storia. Detto così pare astrusissimo, ma, in realtà, è molto semplice. Se tu cessi di sentirti parte del divenire di una comunità, l'ultimo, in ordine di tempo, dei suoi prodotti, allora sei pronto a rimuovere anche i concetti cardine che ne sono alla base e cioè quello di “comunità” e quello di “divenire”. Quindi, automaticamente, cessi di reclamare i diritti che ne derivano. La tua unica cittadinanza diventa di tipo temporale: vivi, come si dice, il “presente” e solo in esso riconosci il senso del tuo pensare e del tuo agire. Fateci caso: specialmente tra i più giovani è diffuso il pregiudizio che tutto ciò che non appartiene al “qui e ora” sia “roba da vecchi”, verso la quale non è cool provare qualche curiosità o rispetto. Anche nel ceto intellettuale, ormai, dare a qualcuno dell'inattuale rappresenta un vero insulto, quasi gli avessi dato dell'analfabeta o del figlio di puttana. Ovvio: l'inattualità, oggi, presuppone tutta una serie di accidenti che l'intellettuale contemporaneo teme più della peste: la scadenza del linguaggio, l'esilio dal novero delle menti “correttamente orientate”, l'accusa di chiusura al mondo e di protezionismo culturale...
A mio avviso non solo occorre rivendicare senza esitazioni e senza quel fare dimesso che assumono coloro che hanno qualcosa di cui scusarsi il proprio orientamento inattuale, ma anche farsi veicoli di propaganda culturale. Occorre, laddove si può, ridicolizzare, mettere all'indice e manifestare disprezzo per taluni fondamenti del sentire contemporaneo. Occorre irriderne certi valori e demistificarne i linguaggi. Senza, però, scadere in un generico passatismo o farsi permeare da tentazioni semplicemente reazionarie. Anacronismo attivo significa semplicemente rifiutarsi di farsi ingabbiare in questo interminabile presente e di farsi derubare, in un solo colpo, del passato e del futuro.
Concludendo, quali progetti futuri per Ianva?
Non posso permettermi di indicare tempistiche precise, ma sono al lavoro su un paio di nuovi spunti. Se non arrivano idee ispirate non faccio nulla. Ma se l'idea arriva e ci convince, faccio in modo che si concretizzi a ogni costo. Ci saranno, questo si, dei concerti e qualche presentazione in occasione dell'uscita del libro, dopo l'inverno. E' molto probabile qualche collaborazione con altre band che stimiamo, in forme che stabiliremo col tempo. Le cose, comunque, si muovono. E' il mondo, purtroppo, che ci precede sempre.
Grazie Mercy per il tempo dedicatoci, un caro saluto!
Grazie a voi per l'interesse e un saluto a tutti!