Rassegna Stampa

Musica. Buttafuoco racconta Mario Vattani e i Sottofasciasemplice

Testata: BARBADILLO

Data:15 luglio 2013
Autore: Pietrangelo Buttafuoco
Tipologia: Specifico

Locazione in archivio

Stato:Solo testo
Locazione: ASMA-Archivio digitale RS,Web/Barbadillo,Barbadillo 2013-07-15

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Non è Katanga il vero nome di Mario Vattani. Il console a Osaka prossimo all’epurazione dalla Farnesina per essersi compromesso con il rock identitario (vabbè, quello fascio) è piuttosto Gambadilegno. E’ un tipaccio dall’eleganza brusca il signor console, ha un sorriso stropicciato e il nome nuovo – lui che si porta dietro la corona del rosario, ma quella del Tempio shintoista – se lo diede da ragazzo guardandosi allo specchio. Si era appena fracassato spalla e gambe e se ne stava in piedi davanti all’armadio come Riccardo III guatando le proprie truppe: “Siamo zoppi, rotti. Chi è piegato nel mezzo e chi invece non ha altro che occhi. Siamo sordi ciechi muti!”. Tipaccio com’è, Vattani, non aveva avuto un incontro pericoloso ma un incidente in montagna. Nulla di eroico, roba di sci. E non aveva una marmaglia a cui parlare. Solo, abbandonato a quella pausa da giovin signore, si guardò e si studiò ogni inciampo e ogni laccio. E con quella gamba, appunto, tutta fasciata nel legno, Vattani, da dentro le proprie carni sotto cortisone, provò a smuovere tutta l’elettricità rock messa a dimora negli anni della sua infanzia al college, in Inghilterra.

Ecco, fu lì che nacque Gambadilegno. E tutta la fatica messa in opera dal padre, Umberto, già segretario generale del ministero degli Esteri, tutta quella laboriosa pedagogia per renderlo borghese quel figlio così ribelle, quel mettergli sul naso un paio di occhiali da impiegato, quel fargli coprire la crapa pelata con più acconci cappellucci, ebbe a sfasciarsi nello stesso istante in cui Mario – ormai adulto – tornò alla musica.

Se Adriano Celentano volesse davvero la trasgressione, stasera dovrebbe chiamare Gambadilegno sul palco dell’Ariston, altro che Michele Santoro. Allora sì che ne verrebbe fuori la catastrofe e neppure Antonio Marano potrebbe metterci riparo. E sarebbe ben più devastante della farfallina di Belen e il Vaticano che fino a ora se n’è stato sulle sue dopo la richiesta celentanesca di chiudere Avvenire e Famiglia Cristiana, adesso sì smuoverebbe mari e monti per cancellare Gambadilegno. Quanto meno per bocca dell’ambasciatore presso la Santa Sede, presidente della commissione di epurazione, potrebbe officiare il più ardente degli anatemi perché se a questo mondo va bene tutto, ma proprio tutto, non può cavarsela Gambadilegno che canta “Bandiera nera”.

Il senso della bandiera è quello di Leo Longanesi: “Ma il vento, il vento, gesummaria, perché non solleva la bandiera nera dell’anarchia?”, ma le sfumature non hanno accoglienza nel furore della Guerra civile e nel Dopoguerra italiano mai concluso, Mario Vattani – reo di aver suonato a una festa di Casapound – è l’ultimo a pagare. E così come quel giapponese restò nella foresta a sparare non avendo ricevuto esplicito ordine dall’Imperatore, così alla Farnesina, convinti di dover rispondere al Cln, alla Guerra civile o al Triangolo rosso, stanno epurando il console anche perché, ahinoi, non c’è più un Palmiro Togliatti, ma perfino un Gianni Alemanno, quello noto alla cronache per via della neve a Roma, che si scatena contro Gambadilegno (che pure fu suo consulente) manco fosse la staffetta partigiana della Balduina.
Tutti hanno qualcosa da farsi perdonare e Vattani, di sicuro, deve farsi perdonare tutto quell’aver perso tempo in quella citrulla gestione dell’amministrazione municipale dell’Alemanno redento. Come quando gli curava i rapporti con la diplomazia nel frattempo che il sindaco – che è così sensibile, così democratico, così resistenziale – firmava petizioni vibranti contro l’equiparazione di status dei combattenti della Repubblica sociale italiana con gli altri soldati, i badogliani. Ma questo è un discorso che ci porta fuori strada.

Uno che si mette nome Gambadilegno non può perdere tempo con Alemanno. Ma può benissimo rappresentare l’Italia a Osaka perché, insomma, Gambadilegno è così giapponese da saper attraversare quella patria così remota dove tutto della natura è ruvido e stropicciato nel frattempo che i cieli s’affollano di divinità assai puntigliose e specialiste. Ce ne sono pure per le bambole e per i pupazzi e solo Gambadilegno può capire la specchiata paideia dei giapponesi quando lasciano l’infanzia e diventano adulti. Vanno al tempio e bruciano i loro giochi. Se ne staccano per restituirli alla dea delle bambole e al dio dei pupazzi e solo Gambadilegno può diventare pazzo di stupore e convincersene che non è la natura a fabbricare lo tsunami o il terremoto, ma il dio dello tsunami e il dio del terremoto, veri e propri Mazinga che se la spassano in questa terra per rendere ragione solo al loro numinoso e luminoso cielo dove ben volentieri vengono accolti gli eroi, giusto quei soldati che nella Seconda guerra mondiale spesero il proprio coraggio per guadagnare una tragedia e riposare adesso, ridotti a cenere, nel cimitero più onorevole che la storia abbia mai conosciuto.

Certo, è un tipaccio molto fico il nostro eroe. Conosce il mondo. Ha cavalcato la tigre, diciamo così, al fianco di una sacerdotessa cecena che, quella bestia – così totemica – ce l’aveva tatuata sulla schiena. Vi faceva volare sopra i suoi capelli, almeno sette chili di crine, tanto erano pesanti e Gambadilegno che ha messo a custodia nel proprio cuore il nitore giapponese conosce il mondo e ne fa uso offrendo all’altra di gamba, quella di carne, una carriera di servitore della patria.

Certo, l’imprinting suo è quello degli schiavettoni, ovvero le manette. Trovandosi al gabbio per vicende di risse di politica (capita), ebbe le manette al polso fin nel suo giorno di laurea, con tutte le famiglie dei laureandi – tutta la gente vestita a festa – costrette ad allontanarsi durante la sessione per accogliere un così magnifico gaglioffo ma la sua formazione, invece, è quella del figlio d’arte, della grande scuola della diplomazia.
Certo, il Dopoguerra non è finito, alla Farnesina c’è riunito il Cln e in questi giorni, in queste ore, si decide il suo destino di diplomatico. Un fatto è sicuro, avesse suonato al raduno anarco-insurrezionalista, Gambadilegno, non avrebbe ricavato nessuna rogna, anzi. Il fatto è che il Dopoguerra si allunga e quando l’Unità, il 29 dicembre scorso, pubblica un articolo dove viene raccontato come se fosse al raduno dei nostalgici in comizio e non a un concerto dove ha solo cantato, diventa superfluo sottolineare come l’evento fosse accaduto molto prima che prendesse servizio a Osaka. Era appunto un concerto, non un meeting politico, ha solo cantato Gambadilegno, non ha fatto nessun saluto romano e non ha inneggiato alla Repubblica di Salò. Piuttosto ha cantato la pietas verso i caduti, gli sconfitti, insomma, fatti perfino personali che – ovvio – nel clima di Dopoguerra eterno, non trovano giustificazione.

Poco importa che fosse a Casapound la festa, Casapound che non è un’organizzazione criminale o illegale. E, soprattutto, non è la casa del vecchiume, piuttosto la “Tana delle Tigri” che non è quella spazzatura altrimenti nota come “estrema destra” ma l’esplosione di un mondo sconosciuto e non certo decifrabile attraverso la demonizzazione. Casapound è un’associazione dove, prima di lui, c’era stata anche Stefania Craxi, sottosegretario agli Esteri. Era comunque una festa privata, non un evento pubblico, proprio perché riservata ai ragazzi del centro sociale “non conforme”. Non cantava col suo nome secolare, ossia Vattani. Nessuno sapeva chi fosse Gambadilegno e che lavoro facesse e sebbene sia chiaro che il Dopoguerra non vuole saperne di finire, poco importa che la procedura applicata contro di lui sia irrituale e discriminatoria, la vicenda di Gambadilegno forse farà scuola, ma la farà nell’albo dei precedenti più ingiusti. E in quelli del Cln, ovviamente, anche se fuori tempo massimo.
Per il ministero degli Affari esteri è stato sufficiente un articolo apparso sull’Unità e un video diffuso dallo stesso giornale il 29 dicembre 2011, per comunicare all’istante ai mezzi di informazione la notizia del deferimento alla commissione di Disciplina: il ministero, senza esitazione e senza offrire la possibilità di fornire spiegazioni, ha recepito e accreditato ufficialmente la versione un quotidiano, sicuramente affettuoso nei confronti del titolare del dicastero (che lo preferisce perfino al Corriere della Sera), ma politicamente collocato in modo ben definito, dando apoditticamente per scontata una ricostruzione faziosa e strumentale dei fatti.

Non vi sono precedenti nella storia del ministero, neppure per casi riguardanti reati gravissimi, quali fuga con la cassa, illecito traffico di passaporti o di visti. In seguito, ricorrendo a una procedura che nulla ha a che vedere con il procedimento disciplinare, è stato richiamato “con effetto immediato” a Roma domenica 22 gennaio, per un viaggio di servizio che non contiene né motivazioni né la necessaria indicazione della data di rientro. Nonostante il brevissimo preavviso e la notevole distanza, Vattani rientrato a Roma l’indomani, per i giornali, è già “ex console a Osaka”.

Dopo l’articolo dell’Unità “E’ il console italiano a Osaka il leader del gruppo fascio-rock”, con il linciaggio, comincia la sistematica disinformazione sulla produzione artistica e musicale. I testi delle canzoni di Sottofasciasemplice vengono ritagliati ad arte, travisati, citati volutamente fuori contesto, confusi con quelli di altri gruppi, con l’obiettivo di presentare quella musica come una specie di miscela nostalgica fatta per energumeni. E, dunque, sarebbe proprio un peccato rinunciarvi nel momento in cui tutta la porcheria sanremese, con l’aggiunta di tutta quella pappa propinata alla gioventù, una poltiglia a base di ignavia e appiattimento, è tutta salute affidarsi alla gioiosa e forte carica delle tre rune, S-F-S. Appunto, Sottofasciasemplice. Il gruppo di Gambadilegno.

Queste sono le parole d’ordine del progetto Sottofasciasemplice, forza e gioia, che Vattani ha portato avanti per quasi venti anni, sempre sotto pseudonimo, in quattro continenti, e con la collaborazione di artisti di diverse culture e nazionalità. Ha suonato sempre senza trarne guadagno, e alla fine – a giudicare anche dal suo curriculum – senza mai incidere sull’impegno dedicato al lavoro. Sottofasciasemplice è un gruppo nato nel 1991, molte canzoni del primo album risalgono addirittura alla fine degli anni 80: tra queste “Ancora in piedi”, oggi saccheggiata per sembrare un’incitazione alla violenza, mentre in realtà è “fiction”, e semmai una critica della violenza politica. Non a caso viene seguita, nel disco successivo, da “La forza tranquilla”. La chiave di lettura degli album del gruppo è che ogni canzone è legata alle altre come una specie di puzzle. Come gli arcani dei Tarocchi, devono rimanere insieme, altrimenti perdono il senso: da qui il nome “Sotto Fascia Semplice”, che è un tipo di spedizione postale, dove ogni busta deve rimanere insieme alle altre. E qui noi pensiamo ai “Lavori postali” di Alighiero Boetti
Non solo Mario Vattani parla correntemente inglese, francese, giapponese e tedesco. Non solo, Mario Vattani parla italiano. E in italiano scrive le sue canzoni, e diremmo citando l’ultima lamentazione critica che da qualche tempo si abbatte sui pochi sopravvissuti al critichese, che non è semplice canzone, quella di Mario Vattani, ma poesia. E seppellendola definitivamente la lamentazione, concluderemmo che è inutile la distinzione tra canzone musicata e versi per la lettura, insomma tra cantautore e poeta. L’unica distinzione che va fatta è semmai tra arte e non arte. Quella di Vattani è arte.

Difficile parlare correntemente inglese, francese, giapponese e tedesco, avere cotanta rete di lingue e civiltà in testa e poi sintetizzare poesia in un italiano asciutto e per nulla frivolo. E visto che siamo nel pieno dell’orda terrifica di Sanremo, diciamo che ne avrebbero i parolieri da imparare dall’italiano duro (senza essere fastidio) e immediato (senza essere sciatto) di Vattani. Le parole prima di tutto, sì, perché è dalla parola che prende forma la musica di Vattani.

Non si capisce, appunto, perché attaccare l’italiano duro ma non nichilista, duro ma non giovanilista, sincero e basta di Vattani, quando le cosiddette major non fanno altro che lanciare canzoni che inneggiano allo sballo e alla noia del mondo. Vattani canta un’alternativa forte ed energica. Come nel testo di “Riccardo III”, che rottama le generazioni per forgiarne altre, senza sosta: “Perché qui dentro si respira un’aria diversa, un’aria distorta, perché adesso che siamo da soli, senza i maestri di vita, con finte esperienze da finti barboni, o finte anime pie, finti sapienti e finti consiglieri, no! noi siamo veri! veri e spogliati!”.
A far la parte del critico musicale la si può mettere così: Vattani sfida lo spreco d’occidente, lo svilimento e il dileggio. Propone il coraggio e sfida il nichilismo d’accatto. Lo sfida attingendo al rock, opponendo al nichilismo del rock l’azzardo di un rock italiano, ma di più, perché la forza musicale di Vattani è declamatoria. E’ quasi teatro.

Vattani, il nostro Gambadilegno, parla correntemente inglese, francese, giapponese e tedesco, ma conosce anche la musica, poiché canta e suona da quando aveva tredici anni. Quindi con i suoi Sottofasciasemplice arriva ormai a disegnare uno stile innovativo, in cui si sentono le melodie e le tonalità della musica elettronica inglese degli anni Settanta e Ottanta e, sempre nel filone, Gary Newman, Soft Cell, e perfino Visage e le colonne sonore dei film di John Carpenter. Tuttavia i Sottofasciasemplice hanno prima di tutto fatto loro hard rock e punk, qualche nome: Motorhead, Exploited e UK Subs. A questo si aggiunga almeno l’ispirazione gotica e dark di gruppi inglesi come Cure, Sol Invictus, Death in June. E perfino la rilettura di Weill e Brecht fatta da un frontman capo come Jim Morrison. E perfino le straordinarie litanie di David Byrne.

Non è un caso che questo genere di atmosfere e di situazioni abbia attirato negli anni un pubblico particolare, certamente minoritario, ma romanticamente legato a questo tipo di estetica. Ma che colpa ne hanno i “fasci” se hanno gusti così raffinati?
Però Sottofasciasemplice ha un seguito vario, non per forza legato a un contesto politico definito e, anzi, i racconti o i personaggi presentati nelle canzoni spesso entrano in aperto contrasto con alcune tematiche tipiche riscontrabili nella cosiddetta “musica alternativa”. Figurarsi con le fanfare dei combattenti e reduci. Chiamare questa musica “fascio-rock” (che peraltro è un termine inventato di sana pianta dall’Unità) è segno di totale malafede, se non di semplice ignoranza. Nei testi di Sottofasciasemplice non vi sono messaggi razzisti, antisemiti, omofobici, né espliciti né nascosti. Non c’è nelle canzoni nulla di “nostalgico” o brutale.

Il racconto di Sottofasciasemplice è un cammino catartico e iniziatico, che si conclude nel 2007 con l’album “Filospinato”, in cui finalmente, grazie a una sorta di esoterica “tenaglia” (“due falci di luna, un sorriso di acciaio che tutto taglia”), l’eroe Gambadilegno attraversa il filo spinato, solo per accorgersi che era lui stesso ad averlo teso tra sé e il mondo: “Tu mitico, mitologico, granitico. A difesa di Patria e Dio, Famiglia, lasciami perdere. Perché mi chiamo tenaglia e sono fatta per recidere, incidere, irrimediabilmente ledere ogni maestà di parola, ogni maestà di immagine”.

Ecco, non saranno i testi di Vattani come quei libri che tutti citano ma che nessuno ha letto? E ora andatevi a vedere il suo curriculum da console. Farete tanto di cappello, anzi, tanto di feluca.

*da Il Foglio


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