Campo Hobbit I
Testata: LA VOCE DELLA FOGNA
Data: ottobre 1977Tipologia: Feste e campi
Locazione in archivio
Stato:Rivista completaLocazione: ACL-AS,RI03B-LA VOCE DELLA FOGNA,15
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Quella della ricerca. Perché di questo si sarebbe dovuto trattare, ricerca musicale,(e non puro recital) ricerca grafica (non disegni già fatti ma gente che dipinge, si corregge, si scopre, si conosce per quello che vale) ricerca, nessuno s’impenni, politica, per giungere a una nuova dimensione nella sola occasione pubblica di questi anni per sfuggire al commento del fato e dell’ovvio, per capire che intorno il mondo pulsa e che ci deve essere un modo per vivere questo nostro status di diversi nella pienezza di una risposta articolata alla fabbrica di consuetudini che ci circonda. Alle volte ci siamo arrivati. Una musica armonica nei fini e nei contenuti, fatta per gioire ma al tempo stesso per sfondare il muro dell‘incomprensione si è sentita sbucare. A che pro accumulare pile di libri in casa propria parlare di “luci del Medioevo” e soffocare i muri di una stanza di posters grondanti elmi, asce e cavalieri e ignorare un tipo di ricerca, melodie medioevali celtiche, ceduta al nemico gratuitamente? Renato Colella, voce sperduta in quel di Avellino, ha sfondato il muro di cartapesta con un magnifico impasto di suono e poesia, Altaforte. Una strada aperta da frequentare, un varco consistente attraverso il quale calarsi furtive a frotte nella cittadella di questo mondo, al cui margine siamo accampati non per un atto di presenza ma studiando il momento migliore per dargli l’assalto e cacciarne gli infami occupatori e tiranni. Senso scenico e capacità di fusione hanno dimostrato gli Amici del Vento, magnifico cuib milanese; ai loro testi pieni e scorrevoli, impietosamente taglienti in una dimensione lontana dalla retorica, ravvivata dai bagliori sottilmente autoironici (Incontro – Trama nera) dobbiamo l’esplosione di lunghi momenti di comunità, il palpabile estinguersi della crisi di identità che ci attanaglia nelle nostre espressioni più esterne. La prova vivente che tutto serve per riscoprire i nodi profondi di un modo d’essere di vivere, di creare. Meno bene l’impatto col nuovo. Specchio della marginalizzazione del militante nel quotidiano, lo stupore smarrito del mucchio di fronte al concerto di Janus. Forse, con Colella, la carta più azzeccata per un slancio di penetrazione, Un rock duro, violento, sfibrante, fra le cui battute ossessive capaci di schiacciare una folla, qualsiasi messaggio sferzante potrebbe essere fatto passare. Ne parleremo a Mosse, qualora volesse scrivere un volume secondo de “La nazionalizzazione delle masse”, il nuovo ancora sul campo e fuori, negli spazi inter-musicali. Niente secchi comandi da capomanipolo niente boss da servire. Per molti una dimensione piena. Per altri lo smarrimento alla ricerca della balia perduta. I dibattiti, gli scambi di idee, qualche sensazione vissuta in comune. Un piccolo, correggibile esempio di una rivoluzione di comunità che potrebbe regalarci la forza dirompente del tempo libero. Il veicolo più sicuro, oggi, per fracassare le ossa a chi ci aspetta solo al varco del comizio, del corteo, del volantinaggio o dell ‘affissione.
Nell’esplosione del tabù, certo molto gusto infantile: la rivendicazione del barattolo rotto di marmellata finalmente sottratto a papà. Ma anche la tangibile constatazione di un mondo in via di creazione: dove ognuno può avere un ruolo per i suoi interessi e non solo per i suoi muscoli; per gli usi indiretti del suoi grammi di materia grigia. Il personale è politico. Un messaggio che avrebbe dovuto esser chiaro da sempre a chi mastica echi di Tradizione ed weltanshauung, si è udito nella sua totalità. Nessun tema sporcato di qualunquismo, un contino intrecciarsi di tesi senza il tedio insopportabile del tran tran di circolo, di gruppo, di sezione. Anche se non tutte le orecchie erano sturate inevitabile risultato, nel paese dei tappi di cera. Abbiamo preso le misure di noi. Sappiamo di poter penetrare dovunque, utilizzare qualunque veicolo per proseguire la marcia verso la nostra rivoluzione. Sappiamo anche che il cammino sarà lungo e non pochi ci lasceranno per strada. Curiamo in tempo di saper far salire in fretta chi più se lo merita. Non basta ripetere pedissequamente gli schemi frusti del festival dell’Unità. Né può abbatterci il fatto di non sapere far uscire da un Campo un lucido 33 giri, come per il Parco Lambro ma solo una stirata cassetta ricordo o testimonianza da chiedere a 3.500 lire alle Edizioni Europa, per ignari, ignavi e neofiti. Questo verrà se sapremo essere noi anche fra gli altri, se lasceremo una volta per tutte il fardello del distinguo e della puzza sotto il naso per vivere il nostro apostolato, la nostra missione la nostra riconquista. Tutto questo ci porterà ben al di sotto delle paludi ma allora perché Campo Hobbit? Perché Tolkien? Una domanda da porre ai tanti, ai troppi venuti a vivere due giorni di attesa e non di partecipazione senza sapere neppure cosa quel nomignolo strano stessa a significare. Hobbit, Tolkien per dire la capacità di vivere di rappresentare, il fascino di un mondo lontano e presente. Godibile oggi, ma su un altro piano. Probabile domani, nel dominio delle scelte di un’esistenza. Hobbit per rimembrare la speranza di un’evasione nel reale, un altro piano di noi, per rinnovare il miracolo di milioni di giovani, ovunque abbarbicati ore ed ore a un insieme quasi illimitato di fogli di carta sottile, sperduti nel sogno che può non finire.. il desiderio di un infinito di un hitch hiker kerouacciano, il fascino ambiguo e sfaldante di un sessantotto non fatto di assemblee e discorsi, ma di sacchi a pelo e di confessioni insieme. Il motore del cambiamento, per chi sfugge l’orizzonte arcinoto del ventre pieno e del portafogli gonfio. Questo ed altro è Hobbit: lo è o può diventarlo