Discorso alla Camera del 13 maggio 1929
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Mi rammarico di non aver potuto ascoltare tutti i discorsi; però li ho letti nei testi stenografici e saranno tutti raccolti a mia cura e pubblicati dalla Libreria del Littorio. La Nazione italiana deve sapere che la discussione s'è svolta con grande dottrina, con fervida passione e che è stata degna del temperamento politico di questa Assemblea. Dico politico, poiché tale è la parola che definisce quest'Assemblea. Il giorno in cui questa parola non avesse più senso, la sorte dell'Assemblea sarebbe segnata.
Tuttavia mi sia concesso di riprendere la formula «Chiesa libera e sovrana: Stato libero e sovrano». Possiamo trovarci di fronte a un equivoco: è urgente quindi chiarire le idee. Questa formula potrebbe far credere che ci sia la coesistenza di due sovranità. Un conto è la Città del Vaticano, un conto è il Regno d'Italia, che è lo Stato italiano. Bisogna persuadersi che tra lo Stato italiano e la Città del Vaticano c'è una distanza che si può valutare a migliaia di chilometri, anche se per avventura bastano cinque minuti per andare a vedere questo Stato e dieci per percorrerne i confini.
Vi sono quindi due sovranità ben distinte, ben differenziate, perfettamente e reciprocamente riconosciute. Ma, nello Stato, la Chiesa non è sovrana e non è nemmeno libera. Non è sovrana «per la contraddizion che nol consente»: non è nemmeno libera, perché nelle sue istituzioni e nei suoi uomini è sottoposta alle leggi generali dello Stato ed è anche sottoposta alle clausole speciali del Concordato. Ragion per cui la situazione può essere così definita: Stato sovrano nel Regno d'Italia, Chiesa Cattolica con certe preminenze lealmente e volontariamente riconosciute; libera ammissione degli altri culti. Ciò precisato - ed io ritengo che questa precisazione non vi sia dispiaciuta - passo innanzi nel mio preambolo.
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Il giorno stesso in cui si firmavano gli accordi del Laterano, qualcuno, nella sua trionfante e obesa stupidità, con sicumera quasi dogmatica, diceva che egli non credeva alla possibilità di questo evento. Viceversa, l'evento era già compiuto, realizzato. Sorpresa, giubilo, commozione, campane, fanfare, bandiere. A tre mesi di distanza questi ardori si sono naturalmente attenuati. Io vi farò quindi il discorso meno lirico possibile, il più freddo possibile; e sono sicuro che non vi stupirete se qua e là vedrete spuntare gli artigli della polemica.
Giova premettere ancora che non v'è stata nessuna improvvisazione, nessuna precipitazione, nessun miracolo. Vi è stato il logico risultato di determinate premesse storiche, morali e politiche. Io ho continuato la strada che molti avevano percorsa fino ad un certo punto: essi non arrivarono in fondo, il Fascismo v'è arrivato! Ma tutto, nella storia, si tiene, e se la natura non fa dei salti nel mondo fisico, non ne fa nemmeno nella storia degli uomini.
Prima constatazione: l'Italia ha il privilegio singolare, di cui dobbiamo andare orgogliosi, di essere l'unica Nazione europea che è sede di una religione universale. Questa religione è nata nella Palestina, ma è diventata cattolica a Roma.
Altra constatazione: nei primi otto secoli del cristianesimo non vi è traccia di principato civile nella storia della Chiesa: ci sono soltanto, specialmente durante e dopo Costantino, alcune proprietà più o meno vaste che formano il nucleo primigenio del Patrimonio di San Pietro.
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E solo attraverso le negoziazioni e gli atti tra Carlo Magno e Leone III si costituisce il principato civile dei Pontefici romani. Questo dura dieci secoli. Ma intanto, qual è la situazione ?
Roma non è più la capitale dell'impero, e nemmeno la capitale politica d'Italia; è la capitale religiosa di tutti gli Italiani, di tutti i cattolici del mondo, ed è la capitale politica di quel piccolo Stato che è lo Stato Pontificio. Dieci secoli di guerre, di paci, di disordini, di tumulti, di grandi eventi, di grandi miserie: tre fatti dominano questo lungo percorso storico: la Riforma, il Concilio di Trento e la captività avignonese. Alla fine del decimottavo secolo, dopo la Rivoluzione francese, due Stati, in Italia, si trovavano dolenti per consunzione dei loro tessuti organici: la Repubblica di Venezia e lo Stato Pontificio. La Rivoluzione francese doveva urtare, dopo aver fatto tabula rasa di tutte le istituzioni religiose di Francia, contro lo Stato Pontificio: e ciò accadde nel 1796.
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In un primo momento Napoleone lo rispetta, non occupa Roma, si ferma a Tolentino; malgrado le sollecitazione atee e anticlericali del Direttorio, egli non spinge la sua azione fino in fondo.
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Ma poi, siccome quello del Pontefice era un principato civile con territori, con porti, con una neutralità che era più o meno rispettata, ma sulla quale Napoleone, ad ogni modo, vigilava attentissimo, siccome tutto poteva nuocere o giovare a Napoleone nello svolgimento delle sue interminabili guerre, entriamo nella fase della rottura: piena, clamorosa, completa.
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Era insensato da parte di Napoleone il pretendere di fare del Santo Padre un Vescovo francese. Che cosa sarebbe diventato allora il cattolicismo di tutti i paesi che non facevano parte dell'Impero francese?
Del resto, lo stesso Napoleone, nelle istruzioni al Re di Roma, così giudicava la sua politica: «Le idee religiose hanno ancora molto impero, più di quanto non si creda da taluni filosofi. Esse possono rendere grandi servizi all'umanità». «Essendo d'accordo col Papa - egli diceva - si domina ancora oggi la coscienza di cento milioni di uomini».
Caduta di Napoleone. Congresso della Santa Alleanza. Ristabilimento del potere temporale dei Papi. Ma questo potere aveva già del piombo nell'ala; esso era già condannato dalla Rivoluzione italiana, che continua, che ha i suoi episodi gloriosi del '20, del '21, e del '31. La repressione molto severa delle Romagne non basta a fermare il moto. È nel '43 che Gioberti stampa, a Bruxelles, il suo famoso libro: Del Primato civile e morale degli Italiani.
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Nel '44 escono il libro di Balbo: Le speranze d'Italia, e quello di D'Azeglio: Sugli ultimi casi di Romagna. Nel '46 sale alla tiara Pio IX.
Voi tutti conoscete l'entusiasmo immenso che i primi atti di questo Pontefice suscitarono nel mondo italiano e cattolico e le delusioni che ne seguirono, quando il Papa, nell'inverno del 1848, dopo l'assassinio di Pellegrino Rossi, se ne andò a Gaeta.
Ma, intanto, la Repubblica Romana, dopo aver organizzato il Governo, si trovò ancora di fronte alle difficoltà della coesistenza di due poteri nella stessa sede.
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Voi vedete che Napoleone, nel primo urto, e la Repubblica Romana nel secondo, hanno sempre dinanzi questo problema, come far sì che il Papa non sia suddito di alcun potere, perchè - come dice De Maistre - il Papa nasce sovrano. Anche i pochi mesi della Repubblica Romana aggiunsero altro piombo nelle ali del principato civile dei Papi.
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Nel '60, la spedizione dei Mille e i plebisciti. Perdute le Marche e l'Umbria, il potere temporale dei Papi è ormai ridotto al Lazio. Nell'ottobre del '60 si può dire che l'unità della nazione sia compiuta.
Appunto perché sul finire del '60 mancavano soltanto la Venezia e il Lazio all'unità della Patria, il problema di Roma diventava sempre più spasimoso e urgente. I progetti fiorivano. I liberali toscani, per esempio, guidati dal Salvagnoli, se ne andarono a Parigi per proporre a Napoleone di lasciare Roma al Pontefice, più una striscia sino al mare. Nel febbraio-marzo 1860 Vittorio Emanuele II, a mezzo dell'abate Stellardi, elemosiniere di Corte, avendo come obiettivo il riordinamento dello Stato Pontificio, proponeva che «il Re di Sardegna esercitasse nella Romagna, nell'Umbria e nelle Marche il potere esecutivo sotto l'alto dominio del Pontefice, la cui suprema autorità avrebbe formalmente riconosciuta e rispettata».
L'11 ottobre 1860 Cavour pronunzia un discorso e dice: «durante gli ultimi 12 anni la stella polare di Vittorio Emanuele fu l'aspirazione all'indipendenza nazionale. Quale sarà questa stella riguardo a Roma? La nostra stella, o signori, ve lo dichiaro apertamente, è di fare che la Città eterna, nella quale venticinque secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida capitale del Regno italiano. Affermai e ripeto che il problema di Roma non può, a mio avviso, essere sciolto con la sola spada».
Gli avvenimenti precipitano. Nel dicembre 1860 si scioglie la Camera; il 27 gennaio 1861 ci sono i comizi elettorali in tutta la penisola, esclusi il Lazio e la Venezia Euganea il 19 febbraio 1861 si apre l'ottava legislatura, la prima del Parlamento italiano; il 2 febbraio 1861 si approva, al Senato, con due voti contrari un disegno di legge per la proclamazione di Vittorio Emanuele Il Re d'Italia. Il 15 marzo 1861 lo stesso progetto di legge viene approvato ad unanimità dalla Camera. II Cardinale Antonelli in nome del Pontefice manda in data 15 aprile una protesta agli Stati. Ma intanto Cavour, come sarà più ampiamente documentato nei volumi che sono in corso di stampa, aveva veramente l'angoscia di giungere a una conclusione nelle trattative col Sommo Pontefice.
Tra il 2 e il 3 febbraio del 1861 Cavour proponeva al Cardinale Antonelli, per mezzo di Omero Bozini di Vercelli, quanto segue:
«a) che la Corte Romana riconoscesse e consacrasse Vittorio Emanuele Re d'Italia;
«b) che il Papa conservasse il diritto di alta sovranità sopra il patrimonio di San Pietro, il quale però sarebbe governato da Vittorio Emanuele e suoi successori quali vicari del Sommo Pontefice ».
Ad altre trattative più importanti parteciparono, come ognuno di voi sa, il padre Passaglia, Diomede Pantaleoni, Antonino Isaia. Queste trattative falliscono. Il 18 marzo 1861 Pio IX dichiara solennemente nel Concistoro di respingere qualsiasi conciliazione. Il moto si accelera ancora di più. Il 25 marzo 1861 Cavour si fa interpellare dal deputato Audinot, e in quella e in una successiva seduta pronuncia due discorsi che lo pongono nell'empireo degli uomini politici di tutti i tempi e di tutte le nazioni. Questo freddo piemontese trova accenti così solenni, così passionali, così ferrei per rivendicare il diritto dell'Italia su Roma, che ancora oggi, a distanza di sessant'anni, non si possono leggere quelle pagine senza essere pervasi da una intima, intensa, profonda commozione. Tuttavia egli non disperava di concludere. Sino all'ultimo momento, quando stava per morire, egli diceva al frate che lo confessava «Frate, frate, libera Chiesa in libero Stato» .
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Prima di tutto Cavour era un cattolico, credente e praticante. La sua tesi era questa: non si poteva andare a Roma con la violenza, la violenza doveva essere la extrema ratio, bisognava andarvi d'accordo con la Francia poiché è difficile scindere la politica cavouriana dalla alleanza con la Francia. Bisognava lasciare al Pontefice un tanto di territorio sul quale egli fosse sovrano, che la sua sovranità, cioè, fosse ancorata in un territorio, la Città leonina, per intenderci. Poi, finalmente, la formula «libera Chiesa in libero Stato».
Ho molto riflettuto su questa formula; ma io credo che lo stesso Cavour non si rendesse conto che cosa, in realtà, questa formula potesse significare. Libera Chiesa in libero Stato! Ma è possibile? Nelle nazioni cattoliche, no. Le nazioni protestanti hanno risolto il problema, facendo in modo che il Capo dello Stato sia anche il Capo della loro religione, e hanno costituito la Chiesa nazionale. V'è un solo paese fra quelli di razza bianca, dove la formula cavouriana sembra aver trovato la sua applicazione: gli Stati Uniti. Là veramente lo Stato è libero e sovrano, e le Chiese sono libere, ma perché? Perché, come ha detto uno studioso di questi problemi, negli Stati Uniti c'è un polverio di religioni per cui lo Stato non ne può scegliere nessuna, né proteggerne alcuna. Io credo, invece, che Cavour volesse intendere che lo Stato dovesse essere libero completamente e sovrano in quelle che sono le proprie attribuzioni, non soltanto però di ordine materiale pratico, come si vorrebbe dare ad intendere - e su ciò torneremo tra poco -, e che la Chiesa dovesse essere libera per il suo magistero e per la sua missione pastorale e spirituale.
Non si può pensare una separazione nettissima tra questi due enti, perché il cittadino è cattolico e il cattolico è cittadino. Bisogna dunque determinare i confini tra quelle che sono le materie miste. D'altra parte la lotta tra la Chiesa e lo Stato è millenaria: o è l'Imperatore che domina il Papa o è il Papa che domina l'Imperatore. Negli Stati moderni, negli Stati a solida organizzazione costituzionale moderna, dato lo sviluppo dei tempi, si preferisce vivere in regime di Concordato. Io credo che Cavour volesse appunto pensare a una siffatta soluzione del problema dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato.
Siamo all'ultimo decennio, quello che va dal 1860 al 1870. Tentativo disperato di Aspromonte. Due anni dopo, le convenzione di settembre e conseguente dissidio tra gli uomini che guidavano la Rivoluzione italiana e che fu fortissimo.
Intanto che cosa erano le convenzioni di settembre? Un patto firmato a Saint Cloud il 15 settembre 1864 tra il Governo italiano e la Francia, che conteneva queste tre clausole:
1. - L'Italia si impegnava a non attaccare il territorio rimasto dopo il 1860 al Papa e ad impedire, anche con la forza, ogni attacco esteriore a questo territorio;
2. - La Francia ritirava le sue truppe nel termine di tre anni, man mano che veniva riorganizzato l'esercito pontificio;
3. - Il Governo Italiano consentiva la costituzione di questo esercito composto di stranieri.
Parve in quel momento che il Governo italiano, il quale stava per trasportare la sua capitale a Firenze, avesse rinunziato alla conquista di Roma.
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Tuttavia, nel 1867, vi è il tentativo di Mentana, nel 1870 siamo alla conclusione, alla prima conclusione.
In che modo?
Il 2 agosto la Francia ritira le sue truppe, quelle che aveva mandato prima e dopo Mentana. Roma è presidiata da un esercito di stranieri - pochissimi gli italiani - guidati da un generale straniero, il Kanzler. L'8 settembre c'è la missione di Ponza di San Martino, che va a Roma per portare una lettera al Santo Padre.
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S. M. il Re Vittorio Emanuele II nella sua lettera al Sommo Pontefice parlava del «Capo della Cattolicità, circondato dalla devozione del popolo italiano, che doveva conservare sulle sponde del Tevere una sede gloriosa e indipendente da ogni umana sovranità» .
La capitolazione della Città leonina veniva esclusa. In data 29 agosto del 1870 il Ministro degli esteri Visconti Venosta mandava una Circolare agli Ambasciatori e Ministri d'Italia, da comunicare ai Governi, nella quale così si esprimeva:
«Il Sovrano Pontefice conserva la dignità, l'inviolabilità e tutte le altre prerogative della Sovranità e inoltre le preminenze verso il Re e gli altri Sovrani che sono stabilite per consuetudine. Il titolo di Principe e gli onori relativi sono riconosciuti ai Cardinali della Chiesa Romana. La Città leonina resta sotto la piena giurisdizione e sovranità del Pontefice. Si sa che il Tevere divide la città in due parti, di cui l'una situata sulla riva destra del fiume, portò un tempo il nome di Città Santa. La Città leonina contiene oggi una popolazione di 15 mila anime e sarebbe suscettibile di contenerne di più. Possiede una grande quantità di Chiese e Palazzi. La Chiesa di San Pietro, il Vaticano e le sue vaste dipendenze, le tombe degli Apostoli e dei Papi più illustri, i numerosi monumenti religiosi ed artistici fanno della città leonina una città rimarchevole ed una splendida residenza per il Capo sovrano della Cattolicità».
Quando a Villa Albani, nella mattinata del 20 settembre 1870, fu firmata la capitolazione per la resa della piazza di Roma tra il Comandante generale delle truppe di S. M. il Re d'Italia e il Comandante generale delle truppe pontificie, veniva stabilito: «la Città di Roma, tranne la parte che è limitata a sud dai bastioni di Santo Spirito e che comprende il Monte Vaticano, Castel Sant'Angelo e gli edifizi costituenti la Città leonina, il suo armamento completo, bandiere, armi, magazzini di polvere, ecc., saranno consegnati alle truppe di S. M. il Re d'Italia. Tutta la guarnigione del Palazzo uscirà con l'onore delle armi, con bandiere, armi e bagagli, tutte le truppe straniere saranno sciolte e subito rimpatriate per cura del Governo italiano. Le truppe indigene saranno costituite in deposito, senz'armi, e nella giornata di domani saranno mandate a Civitavecchia. Sarà nominata, da ambo le parti, una Commissione composta da un ufficiale d'artiglieria, ecc.». Per l'esercito italiano firmavano il Capo dello Stato Maggiore, generale Domenico Primerano, e il Luogotenente generale comandante il IV Corpo d'Esercito Conte Raffaele Cadorna; per l'altra parte: il generale comandante le armi a Roma, Kanzler.
Voi vedete che, anche quando le truppe di Cadorna entrarono a Roma, non varcarono il Tevere, non si spinsero sulla riva destra del Tevere e anche quando, essendosi determinati disordini nella Città leonina, furono chiesti rinforzi al Generale Cadorna, questi, in una lettera al Cardinale Giovanni Antonelli, rispose che «avrebbe mandato truppe per sedare i tumulti, ma non vi sarebbero rimaste».
Quando fu convocato il Plebiscito, furono esclusi dalla convocazione gli abitanti della Città leonina, i quali però, il 2 ottobre, votarono lo stesso, e la sera si recarono in Campidoglio, dove furono ricevuti dal padre del nostro camerata Blanc, il quale fece passare i trasteverini, col loro plebiscito, colle bandiere e le fiaccole, e il plebiscito fu accolto. Sette giorni dopo, una Commissione si recava da S. M. il Re, a Firenze, per portare il risultato del plebiscito romano.
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Ecco che cosa disse S. M. il Re, ricevendola
«Io, come Re e come Cattolico, nel proclamare l'unità d'Italia, rimango fermo nel proposito di assicurare la libertà della Chiesa e l'indipendenza del Sovrano Pontefice. E con queste dichiarazioni solenni, io accetto dalle vostre mani, egregi signori, il plebiscito di Roma e lo presento agli Italiani, augurando che essi sappiano mostrarsi pari alla gloria dei nostri antichi e degni delle presenti fortune».
Magnifiche parole, degne di un gran Re.
Nello stesso giorno veniva emanato un decreto Reale da Firenze, importantissimo. Questo decreto dice:
«Art. 1. - Roma e la provincia romana fanno parte integrante del Regno d'Italia.
«Art. 2. - Il Sommo Pontefice conserva la dignità, l'inviolabilità e tutte le prerogative personali e sovrane.
«Art. 3. - Con apposita legge verranno sancite le condizioni atte a garantire, anche con la franchigia territoriale, l'indipendenza del Sommo Pontefice e il libero esercizio dell'autorità spirituale della Santa Sede. Il presente decreto sarà presentato al Parlamento per essere convertito in legge ».
Infatti fu presentato al Parlamento e suscitò una grande discussione. Durante questa discussione, in data 20 dicembre, il Ministro degli esteri dei tempo, Visconti Venosta, affermava:
«Si potrà dire, o signori, che questo progetto della Città leonina, di cui l'Europa non fu chiamata a prendere atto, ma che abbiamo invece proposto al Pontefice, non è logico dal punto di vista dell'abolizione del potere temporale, ma io credo che il Paese non ci avrebbe condannato, ma ci avrebbe approvato, se in cambio di questa concessione noi ci fossimo presentati ad esso con la Questione Romana risoluta».
«Era risoluto così il più arduo, il più terribile problema della nostra esistenza nazionale, e sgombrato l'avvenire da ogni incertezza e da ogni difficoltà».
Dovevano passare ancora cinquant'anni perché questo punto di vista del ministro degli esteri del tempo fosse realizzato.
Si parlava, dunque, di franchigie territoriali. A questo punto voi mi direte: « Ma perché questa lezione storica?». Perché voglio dimostrarvi i precedenti, perché voglio dimostrarvi che io sono conseguente, e che non solo noi non rinneghiamo il Risorgimento italiano, ma lo completiamo.
Ci furono in quel torno di tempo, a Firenze, dove era il Parlamento, tre discussioni interessantissime. La prima fu provocata dal progetto di legge per il «trasporto» della Capitale a Roma. Uomini eminentissimi non volevano, all'ultimo momento, procedere a questo «trasporto». Brutta parola. Non ve n'è un'altra . . .
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I mesi che vanno dal settembre al dicembre 1870 furono penosissimi. Proteste, perché si diceva che il segreto epistolare non venisse più osservato; proteste, perché si era dovuto sospendere il Concilio ecumenico; proteste per certe violenze di cui si sarebbero resi colpevoli i soldati dell'Esercito italiano; proteste, infine, per l'occupazione del Quirinale. E Visconti Venosta, Ministro degli esteri del tempo, dovette mandare una lunga circolare a tutti i nostri rappresentanti all’estero per spiegare come qualmente il Re d'Italia aveva il diritto di entrare al Quirinale. I cattolici di tutto il mondo, e di tutta Europa specialmente, protestavano . . .
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Fu gran ventura che, l'Esercito Italiano rimanesse sulla riva sinistra del Tevere. Se il Papa fosse stato espulso dall'ultimo angolo di territorio, dal suo palazzo insomma o se ne fosse andato, gravi problemi si sarebbero affacciati davanti al Governo italiano. Per fortuna, gli avvenimenti erano propizi. Chi poteva commuoversi in quegli anni? Non la Francia, la quale era stata fiaccata dalla Prussia: aveva bisogno di rifarsi, doveva pagare una ingente indennità, ingente allora, adesso sarebbe uno scherzo. Non la Francia, che aveva perduto due provincie di grandissimo pregio, che aveva ritirato le sue truppe da Roma, già da tempo, e che tuttavia aveva lasciato a Civitavecchia, quasi come un biglietto da visita, un bastimento che si chiamava l'Orénoque, e che vi restò fino al 1874. La Germania era l'astro che saliva prepotentemente all'orizzonte in quel periodo di tempo, dopo tre guerre vittoriose: quella del '64 per lo Schleswig-Holstein, quella del '66, che fiaccò l'Austria a Sadowa, e quella del '70: ma la Prussia era protestante. Bismarck non solo non pensava ad aiutare il Papa, ma stava per ingaggiare quella lotta della KuIturkampf dalla quale, bisogna dirlo, egli uscì battuto.
L'Austria aveva nelle ossa tutti i dolori delle guerre del Risorgimento, ed era all'indomani di Sadowa, e soprattutto si trovava di fronte al problema per cui è morta, non avendolo risolto il problema delle sue molteplici razze, le quali avevano allora l'esempio di due popoli che nel corso del secolo XIX erano assurti alla dignità e all'indipendenza di Nazione: il popolo germanico e il popolo italiano. Queste grandi Potenze mandavano, come mandarono in seguito, dei messaggi patetici; ma non sempre con questi messaggi si modifica il corso delle cose o si cambia la storia degli Stati.
Venne così in discussione, in quel torno di tempo, la legge sulle guarentigie in conseguenza del decreto Reale del 9 ottobre, divenuto poi legge. Vi parteciparono, tanto al Senato quanto alla Camera, degli uomini notevoli e taluno di alta rinomanza: Toscanelli, Coppino, Boncompagni, Berti, Bonghi, Crispi, Mancini e, naturalmente, i Ministri. Così al Senato: Cambray-Digny, Menabrea, Capponi, Michele Amari, storico eminentissimo. Infine, la discussione pose di fronte tre tendenze: la Sinistra diceva: «voi date troppo al Papa». Un oratore della Sinistra giunse ad affermare: «se voi date al Sommo Pontefice tanto di terra quanto basta perché egli vi possa posare sopra la sua sacra pantofola, voi restituite il potere temporale al Papa». Precisamente l'on. Salvatore Morelli, nella seduta del 24 gennaio 1871 così si esprimeva: «Quando voi trovate nella legge queste condizioni: inviolabilità, immunità dei luoghi dove siede d'ufficio il Pontefice, senza controllo dello Stato, sudditanza dei poteri politici ed amministrativi dei Regno ai servizi della Curia, lista civile, onori di Re dovuti al Pontefice, internazionalità dei suoi atti e legazie, dominio illimitato di esso sul basso clero, esenzione dei Vescovi dal giuramento: quando voi avete queste condizioni, come potete mettere in dubbio che il potere temporale sia restaurato meglio e più forte di quanto non lo era prima della sua caduta?». Questa era la tesi dell'on. Salvatore Morelli. Viceversa la tesi dell'on. Toscanelli era esattamente agli antipodi: «il Papa non deve sembrare a nessun popolo come soggetto a subire le influenze di qualsiasi Stato: il giorno in cui ciò fosse palese, egli avrebbe perduto il suo carattere di Pastore universale». Quindi Roma, quindi la riva del Tevere, quindi la solita striscia al mare. In mezzo, l'opinione media del Governo di allora che, in realtà, con questa legge delle guarentigie ha creato una sovranità.
Il Papa non era più un suddito, era un sovrano. Usando la terminologia di moda importata dall'americanismo, potremo dire che questa sovranità era al cento per cento? No, non era al cento per cento: mancava qualche cosa, mancava il territorio. C'è la frase tipica: «continua a godere»; ma in realtà era un tacito riconoscimento di una sovranità territoriale; tant'è vero che negli anni che seguirono, giammai ci fu un atto dello Stato italiano che rivendicasse, anche lontanamente, una qualsiasi sovranità nella cinta del Vaticano. A ciò si ridussero le «franchigie territoriali» previste dal già ricordato decreto Reale dell'ottobre 1870.
La legge non fu accettata. Alla fine del 1871 l'Italia e Roma erano in questa singolare posizione: il Re usurpatore, il Papa prigioniero. Il Papa, che non riconosceva l'unità della Patria, che non riconosceva la conquista di Roma e che protestava violentemente in tutti i suoi atti pubblici e diplomatici contro la conquista di Roma, realizzata dalla Rivoluzione italiana. Tempi duri, quelli! Tempi foschi! È solo nel 1874 che appare uno spiraglio di luce; e questo spiraglio di luce è legato al nome del vescovo Bonomelli. Bisogna ricordare con molta simpatia, anche noi Fascisti, quella bella, degnissima figura di patriota e di sacerdote!. . .
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Nel 1878 muore il gran Re. V'è nel clero un moto di riaccostamento alla Nazione, malgrado i veti delle supreme gerarchie della Chiesa. In molte città d'Italia, specialmente della Lombardia, specialmente della Provincia di Cremona, Vescovi e Parroci celebrano grandi funerali alla memoria del Re.
Ma il periodo più interessante nella storia della Conciliazione è quello che va dall'80 al '90, e che comincia nel 1881, col discorso tenuto da Mons. Geremia Bonomelli, nel Duomo di Milano, presenti 16 Vescovi, e centinaia di sacerdoti, nel quale discorso il Vescovo affermava che la pace doveva farsi e che oramai la conquista di Roma doveva essere ritenuta un fatto compiuto e irrevocabile. In quel periodo di tempo, gli alti e i bassi della Conciliazione furono infiniti. Quando il Re Umberto si recò a Firenze ad inaugurare la nuova facciata di Santa Maria del Fiore e fu ricevuto dal Vescovo, tutti credettero che la conciliazione fosse imminente. Quando, di lì a qualche tempo, il Re si recò a Terni, e vi fu ricevuto dal Vescovo di Terni, con tutti gli onori dovuti a un sovrano, l'emozione fu grandissima, perché Terni apparteneva agli ex Stati pontifici. Tutti si occupavano di conciliazione. Se ne occupavano i Vescovi e i garibaldini. Stefano Türr, per esempio, sentì il bisogno di stampare un opuscolo a Parigi per raccomandare ed esaltare la Conciliazione.
Non meno interessante fu l'atteggiamento tenuto in quell'epoca dal garibaldino Achille Fazzari, il quale era un valoroso, aveva combattuto ad Aspromonte e a Mentana ed era stato ferito a Monte Libretti. Giuseppe Garibaldi dedicandogli un sonetto lo chiamava «Mio caro figlio». Questo energico calabrese stampò nel principio del 1886 una lettera ai suoi elettori di Catanzaro, che cominciava con queste parole: «bisogna fare la Conciliazione». Questa tesi egli sostenne in lunghe vivaci polemiche superanti anche le frontiere . . .
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È di questo decennio singolarissimo l'episodio Tosti, «quel buon matto di Tosti», come lo chiamava Pio IX. Quando usci il suo opuscolo, il clamore fu infinito, ma l'Osservatore Romano lo bollava con queste parole: «è uscito il monumento ciclopico della ingenuità cassinese». Era il momento in cui non si mollava.
Leone XIII, visto che Bismarck non marciava, malgrado la démarche Galimberti, e visto che anche Francesco Giuseppe si limitava a generiche assicurazioni, manifestava il desiderio che fosse tolto di mezzo il funesto dissidio; però l'Osservatore Romano del 28 maggio 1887 aggiungeva: «la giustizia è una sola e inflessibile. Essa importa la restituzione di quanto fu tolto e la riparazione dei diritti della Santa Sede violati dalle congiure delle sètte; importa il ristabilimento del potere temporale, specialmente sulla Città di Roma».
Nel 1887 eravamo dunque in pieno temporalismo. La città di Roma era il minimo delle pretese . . . . .
Padre Tosti aveva scritto un opuscolo, il cui protagonista si chiamava «Don Pacifico». Era un ottimo personaggio, questo frate, ma apparteneva al genere di quegli uomini che sono espansivi al sommo grado e panglossiani altresì, che credono che certe questioni grossissime possano essere risolte con una parola, con un gesto, con un sorriso. Egli pensava che un incontro tra Umberto e il Papa avrebbe condotto alla pace, che tutto consistesse nel combinare questo incontro. Non era quindi un problema politico; era più un problema di procedura, oserei dire di protocollo. Don Davide Albertario, il tempestoso Don Albertario, il nemico di Geremia Bonomelli, scrisse subito un contropuscolo, e se il protagonista dell'opuscolo del Tosti fu «Don Pacifico», il protagonista del contropuscolo dell'Albertario si chiamava «Don Belligero», e aveva inalberato quest'insegna: «restituzione o dannazione».
È singolare che il libro di Mons. Geremia Bonomelli, stampato nel 1889, dopo essere stato pubblicato come articolo sulla Rassegna Nazionale, pur essendo giunto alla quinta edizione allora, oggi sia quasi introvabile. Ho dato ordine che sia ristampato.
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Ma che cosa proponeva Mons. Bonomelli? Citiamo testualmente dal suo opuscolo:
«Dunque diasi al Papa almeno la riva destra di Roma, con una striscia fino al mare, con una zona di qualche chilometro dietro al Vaticano, dove si potrebbe a poco a poco fabbricare una città nuova; essa sarebbe un Principato di Monaco, una piccola repubblica di San Marino, o delle Andorre, alcun che di simile. Qui non vi sarebbe alcun bisogno di pubblici uffici, né di guarnigioni, per la sua piccolezza non potrebbe suscitare timori e gelosie nel Governo Italiano, né in altri Governi. Sarebbe un Vaticano allargato con una popolazione di una diecina di migliaia di anime o poco più. Pel Governo non creerebbe alcun imbarazzo e lo libererebbe da molti e tosto. Sarebbe una miniatura di Stato, senza noie, senza cura, senza pericoli pel Papa, un ornamento per la Roma regia, una singolarità per l'Europa. Tutti gli uffici ecclesiastici trasportati nella nuova Sion, con le sue poste e telegrafi, con un tronco di ferrovia e tutti gli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede alloggiati intorno al Vaticano, quasi testimoni e sentinelle veglianti alla sua sicurezza.
«La nuova cittadella sarebbe una terra di Gessen, un'oasi felice, un santuario nel cuore d'Italia, un asilo di pace, il porto sicuro e tranquillo, il punto che irraggi lume su tutta la terra e «al qual si traggon d'ogni parte i pesi», il centro del mondo cattolico, la novella Sion, donde partirebbero gli oracoli e le parole di vita. Quale spettacolo! Qual gloria per l'Italia nostra! Da una parte, sul Quirinale, il Re d'Italia; dall'altra, la forza morale, la prima forza morale d'Italia e del mondo dall'una parte la spada, dall'altra il pastorale; dall'una parte il Pontefice che prega e benedice; dall'altra il Re, che impera: dall'una parte l'uomo della pace, dall'altra l'uomo della guerra; dall'una parte gl'interessi del cielo e delle anime, dall'altra gli interessi della terra e dei corpi; dall'una parte muovono le schiere dei pacifici conquistatori, che portano la civiltà del Vangelo alle terre più lontane, dall'altra, muovono gli eserciti che difendono le frontiere della Patria e si regolano le flotte che solcano i mari: da una parte si curano i bisogni del tempo, dall'altra si provvede a quelli della eternità. I mille e mille pellegrini, laici e religiosi, missionarii, suore, Vescovi, uomini d'arti, di scienze, di lettere e d'armi che accorrono a Roma, dopo aver visitato la Roma antica dei Cesari, la nuova Roma d'Italia, varcando il Tevere deporrebbero a' piedi del Pontefice i loro omaggi, ammirerebbero la grandezza e le glorie di Roma cristiana cattolica. La destra e la sinistra del Tevere, il Quirinale e il Vaticano, il Papa ed il Re, la religione e la patria, riunirebbero a vicenda i riflessi del loro splendore, i raggi della loro gloria, e il grido di giubilo di tutta Italia pacificata saluterebbe il Maestro infallibile della Fede e il difensore della Patria. La destra e la sinistra dei Tevere, sarebbero i due fuochi della ellissi italiana, come scriveva Vincenzo Gioberti. L'Italia sarebbe ancora la terra privilegiata, faro del mondo e segno di invidia ai popoli. I nostri occhi verserebbero lacrime di gioia inesprimibile; i nostri cuori balzerebbero concitati, colmi, riboccanti di giubilo in quel dì, che il Re e l'amabile Regina col giovane Principe, accompagnati dalla Corte salissero le scale del Vaticano, e il candido Vegliardo, che vi risiede, muovesse loro incontro e si abbracciassero, e i due grandi e supremi amori della Religione e della Patria si confondessero in un solo e santo amore. Quel giorno, nel quale il Vegliardo del Vaticano uscisse e si volgesse al Quirinale, tutta Roma si precipiterebbe su i suoi passi, cadrebbe ginocchioni, leverebbe le mani a lui, acclamando e benedicendo: festa simile a quella l'Italia non l'avrebbe mai vista. La bocca della empietà sarebbe chiusa, la Religione tornerebbe regina, e il suo trionfo sarebbe assicurato. Io domando al cielo di poter veder quel giorno avventurato, e poi morire.
«Ma dove sono? Ho io sognato? Sì, ma talvolta i sogni sono profetici, e chi sa che Iddio pietoso, che amò l'Italia sopra tutte le nazioni, che la sostituì al popolo eletto, che la fè centro del mondo cattolico, alle altre innumerevoli prove dell'amor suo aggiunga anche questa!».
E più oltre:
«Ma perché questa miniatura di Stato indipendente, neutralizzato, sulla destra del Tevere, sia possibile e durevole, che cosa si esige? Che sia creata, non da forza straniera, né materiale, né morale, ma dagli italiani stessi. Questa nuova creazione deve erompere dalla persuasione intima, spontanea della nazione, la quale sa di far cosa utile e necessaria a se stessa, che lungi dall'affievolirla la rafforza, lungi dal dividerla la unisce, lungi dall'umiliarla l'onora altamente in faccia al mondo. Onora e afforza altresì la S. Sede, perché assicura la sua indipendenza e dignità, perché disarma un partito potente, che la combatte, perché mostra al mondo il suo amore per la pace, per l'unità d'Italia, perché l'opera del Clero sarà più libera e fruttuosa e avrà nel Parlamento e nel Senato voci eloquenti che difenderanno gli interessi morali e religiosi senza timore di sentirsi dire in faccia: Voi siete nemico della Patria! Questa sovranità in miniatura scioglie la Santa Sede dalle cure secolaresche, che in passato le recarono non piccolo danno, la libera delle noie e lotte diplomatiche, perché la piccolezza sua sarebbe una quantità minima negli affari politici d'Europa, e, sia pace, sia guerra, il Papa non avrebbe di che temere. Su quell'Eden fortunato e tranquillo sarebbe perpetuo il sorriso del cielo, sempre pura e limpida la luce del sole. Questa Conciliazione e questa creazione d'una sovranità vera in sé, ma nominale quanto all'importanza materiale, potrebbe ricevere la sanzione delle Potenze e avere unitamente alla legge delle guarentigie, opportunamente modificata, una saldezza maggiore, quella saldezza che è possibile nelle cose umane, giacché una saldezza assoluta non c'era nell'antico Potere temporale, né è delle cose nostre sulla terra».
Intanto il decennio 1880-1890 che fu tumultuoso ed agitato per la Conciliazione, per le polemiche che ad essa si riattaccavano, per i vani tentativi di Crispi, cominciava nel 1881 con le scene veramente scandalose che si svolsero a Roma, quando vi fu il trasporto notturno della Salma di Pio IX, dal Vaticano a San Lorenzo, e si concludeva nel 1889 con l'inaugurazione del monumento a Giordano Bruno. La tensione tra le due potestà in quel periodo di tempo fu acutissima.
Veniamo all'ultimo decennio. Nel 1892 c'è un avvenimento che ha la sua importanza nella storia politica italiana. A Genova, nella sala Sivori, il Partito socialista si stacca dal complesso degli anarchici e anarcoidi. Nel 1895 nuova tensione fra lo Stato e la Santa Sede, quando un deputato, Vischi, propone, sostenuto dall'on. Pilade Mazza e da altri, che il 20 settembre fosse proclamato festa nazionale. Ma intanto negli anni 1893-94, l'Italia, dalla Sicilia alla Lunigiana, fu scossa da un moto di carattere sociale. Nuove masse stavano per entrare nella vita della nazione con diversi bisogni e diversi ideali.
C'era qualche cosa che maturava nel sottosuolo. Pochi anni dopo il Pontefice Pio X sale al fastigio supremo; ma la situazione non cambia. Questo Papa che debella il modernismo, questo Papa, che per la prima volta toglie il veto, il non expedit agli emigrati all'interno, come erano chiamati i cattolici dopo il 1870, questo Papa che immette tutte le forze cattoliche nella vita della Nazione, è tuttavia il Papa che mantiene la sua univoca protesta e la mantiene in un modo clamorosissimo, signori, rompendo le relazioni diplomatiche con la Francia che aveva mandato Loubet a visitare il Re d'Italia nella Capitale. Ma intanto, che cosa era accaduto? Dal 1880 al 1905 tutto il tessuto della vita sociale italiana si era trasformato.
Se negli anni dal 1839 al 1842 apparvero le prime timide ferrovie tra Napoli e Portici, Milano e Monza, dal 1875 al 1905, in quei trenta anni, il tessuto sociale, economico della nazione italiana, si trasforma profondamente, nasce una borghesia - uso questa parola anacronistica per intenderci meglio - . . .
È vero che il Papa Pio X tende a rafforzare il carattere universalistico del papato, ma sa che per mantenere questo carattere universalistico, il Papa deve in qualche parte del globo terracqueo essere sovrano, e questa sovranità non gli può essere riconosciuta che nelle forme con le quali il Fascismo gliel'ha data.
Siamo alla Guerra mondiale. C'è una dichiarazione importantissima, del 20 giugno 1915 e di cui bisogna tener conto. Notate - sia detto per incidenza - che alcuni mesi dopo la dichiarazione di guerra, il Re di Spagna era disposto a cedere al Papa il palazzo dell'Escuriale, e i Vescovi spagnoli, con pubblica lettera, ne fecero offerta formale a Benedetto XV. Nel pieno della guerra mondiale, quando già l'Italia era intervenuta da un mese, il Cardinale Gasparri dichiarava che la Santa Sede aspettava la sistemazione della sua situazione in Italia, non dalle armi straniere, ma dal senso di giustizia del popolo italiano, nel suo verace interesse. Questa ripulsa di qualsiasi intervento straniero schiariva l'orizzonte e facilitava enormemente la soluzione della questione.
Nel 1919 ci furono degli approcci tra la Santa Sede e il Presidente del Consiglio di allora, on. Orlando. È una pagina di storia inedita che io vi leggo e che è molto interessante. Nel maggio 1919 il prelato americano Mons. Kelley, ora vescovo di Oklanoma, negli Stati Uniti, si trovava a Parigi per sostenere presso la Conferenza della Pace la causa dei vescovi messicani, allora in esilio negli Stati Uniti per la rivoluzione di Carranza. Dal Cardinale Mercier egli fu invitato a sondare il terreno presso le persone influenti intorno alla Conferenza per vedere se fosse possibile trattare della soluzione della Questione Romana. Il 17 maggio egli incontrò il Signor Brambilla, consigliere della Delegazione Italiana alla Conferenza della Pace, che egli già conosceva, e il discorso venne sulla Questione Romana. Il Brambilla lo invitò per l'indomani a recarsi presso di lui all'Hôtel Ritz, dove lo avrebbe fatto incontrare con «un importante personaggio». L'importante personaggio era l'on. Orlando, che in quel colloquio trattò a fondo della Questione Romana, esaminando le convenienze e le possibilità pratiche di una sua soluzione.
Quantunque Monsignor Kelley dichiarasse di non avere nessuna autorità a trattare e di agire soltanto per propria personale iniziativa, la discussione volse anche intorno ai punti sostanziali dell'eventuale soluzione. Si parlò di un territorio che cominciasse da Ponte Sant'Angelo, includendovi il Castello, di uno sbocco al mare e di una garanzia delle altre nazioni, da ottenersi attraverso la Lega delle Nazioni.
Tuttavia mi sia concesso di riprendere la formula «Chiesa libera e sovrana: Stato libero e sovrano». Possiamo trovarci di fronte a un equivoco: è urgente quindi chiarire le idee. Questa formula potrebbe far credere che ci sia la coesistenza di due sovranità. Un conto è la Città del Vaticano, un conto è il Regno d'Italia, che è lo Stato italiano. Bisogna persuadersi che tra lo Stato italiano e la Città del Vaticano c'è una distanza che si può valutare a migliaia di chilometri, anche se per avventura bastano cinque minuti per andare a vedere questo Stato e dieci per percorrerne i confini.
Vi sono quindi due sovranità ben distinte, ben differenziate, perfettamente e reciprocamente riconosciute. Ma, nello Stato, la Chiesa non è sovrana e non è nemmeno libera. Non è sovrana «per la contraddizion che nol consente»: non è nemmeno libera, perché nelle sue istituzioni e nei suoi uomini è sottoposta alle leggi generali dello Stato ed è anche sottoposta alle clausole speciali del Concordato. Ragion per cui la situazione può essere così definita: Stato sovrano nel Regno d'Italia, Chiesa Cattolica con certe preminenze lealmente e volontariamente riconosciute; libera ammissione degli altri culti. Ciò precisato - ed io ritengo che questa precisazione non vi sia dispiaciuta - passo innanzi nel mio preambolo.
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Il giorno stesso in cui si firmavano gli accordi del Laterano, qualcuno, nella sua trionfante e obesa stupidità, con sicumera quasi dogmatica, diceva che egli non credeva alla possibilità di questo evento. Viceversa, l'evento era già compiuto, realizzato. Sorpresa, giubilo, commozione, campane, fanfare, bandiere. A tre mesi di distanza questi ardori si sono naturalmente attenuati. Io vi farò quindi il discorso meno lirico possibile, il più freddo possibile; e sono sicuro che non vi stupirete se qua e là vedrete spuntare gli artigli della polemica.
Giova premettere ancora che non v'è stata nessuna improvvisazione, nessuna precipitazione, nessun miracolo. Vi è stato il logico risultato di determinate premesse storiche, morali e politiche. Io ho continuato la strada che molti avevano percorsa fino ad un certo punto: essi non arrivarono in fondo, il Fascismo v'è arrivato! Ma tutto, nella storia, si tiene, e se la natura non fa dei salti nel mondo fisico, non ne fa nemmeno nella storia degli uomini.
Prima constatazione: l'Italia ha il privilegio singolare, di cui dobbiamo andare orgogliosi, di essere l'unica Nazione europea che è sede di una religione universale. Questa religione è nata nella Palestina, ma è diventata cattolica a Roma.
Altra constatazione: nei primi otto secoli del cristianesimo non vi è traccia di principato civile nella storia della Chiesa: ci sono soltanto, specialmente durante e dopo Costantino, alcune proprietà più o meno vaste che formano il nucleo primigenio del Patrimonio di San Pietro.
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E solo attraverso le negoziazioni e gli atti tra Carlo Magno e Leone III si costituisce il principato civile dei Pontefici romani. Questo dura dieci secoli. Ma intanto, qual è la situazione ?
Roma non è più la capitale dell'impero, e nemmeno la capitale politica d'Italia; è la capitale religiosa di tutti gli Italiani, di tutti i cattolici del mondo, ed è la capitale politica di quel piccolo Stato che è lo Stato Pontificio. Dieci secoli di guerre, di paci, di disordini, di tumulti, di grandi eventi, di grandi miserie: tre fatti dominano questo lungo percorso storico: la Riforma, il Concilio di Trento e la captività avignonese. Alla fine del decimottavo secolo, dopo la Rivoluzione francese, due Stati, in Italia, si trovavano dolenti per consunzione dei loro tessuti organici: la Repubblica di Venezia e lo Stato Pontificio. La Rivoluzione francese doveva urtare, dopo aver fatto tabula rasa di tutte le istituzioni religiose di Francia, contro lo Stato Pontificio: e ciò accadde nel 1796.
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In un primo momento Napoleone lo rispetta, non occupa Roma, si ferma a Tolentino; malgrado le sollecitazione atee e anticlericali del Direttorio, egli non spinge la sua azione fino in fondo.
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Ma poi, siccome quello del Pontefice era un principato civile con territori, con porti, con una neutralità che era più o meno rispettata, ma sulla quale Napoleone, ad ogni modo, vigilava attentissimo, siccome tutto poteva nuocere o giovare a Napoleone nello svolgimento delle sue interminabili guerre, entriamo nella fase della rottura: piena, clamorosa, completa.
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Era insensato da parte di Napoleone il pretendere di fare del Santo Padre un Vescovo francese. Che cosa sarebbe diventato allora il cattolicismo di tutti i paesi che non facevano parte dell'Impero francese?
Del resto, lo stesso Napoleone, nelle istruzioni al Re di Roma, così giudicava la sua politica: «Le idee religiose hanno ancora molto impero, più di quanto non si creda da taluni filosofi. Esse possono rendere grandi servizi all'umanità». «Essendo d'accordo col Papa - egli diceva - si domina ancora oggi la coscienza di cento milioni di uomini».
Caduta di Napoleone. Congresso della Santa Alleanza. Ristabilimento del potere temporale dei Papi. Ma questo potere aveva già del piombo nell'ala; esso era già condannato dalla Rivoluzione italiana, che continua, che ha i suoi episodi gloriosi del '20, del '21, e del '31. La repressione molto severa delle Romagne non basta a fermare il moto. È nel '43 che Gioberti stampa, a Bruxelles, il suo famoso libro: Del Primato civile e morale degli Italiani.
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Nel '44 escono il libro di Balbo: Le speranze d'Italia, e quello di D'Azeglio: Sugli ultimi casi di Romagna. Nel '46 sale alla tiara Pio IX.
Voi tutti conoscete l'entusiasmo immenso che i primi atti di questo Pontefice suscitarono nel mondo italiano e cattolico e le delusioni che ne seguirono, quando il Papa, nell'inverno del 1848, dopo l'assassinio di Pellegrino Rossi, se ne andò a Gaeta.
Ma, intanto, la Repubblica Romana, dopo aver organizzato il Governo, si trovò ancora di fronte alle difficoltà della coesistenza di due poteri nella stessa sede.
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Voi vedete che Napoleone, nel primo urto, e la Repubblica Romana nel secondo, hanno sempre dinanzi questo problema, come far sì che il Papa non sia suddito di alcun potere, perchè - come dice De Maistre - il Papa nasce sovrano. Anche i pochi mesi della Repubblica Romana aggiunsero altro piombo nelle ali del principato civile dei Papi.
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Nel '60, la spedizione dei Mille e i plebisciti. Perdute le Marche e l'Umbria, il potere temporale dei Papi è ormai ridotto al Lazio. Nell'ottobre del '60 si può dire che l'unità della nazione sia compiuta.
Appunto perché sul finire del '60 mancavano soltanto la Venezia e il Lazio all'unità della Patria, il problema di Roma diventava sempre più spasimoso e urgente. I progetti fiorivano. I liberali toscani, per esempio, guidati dal Salvagnoli, se ne andarono a Parigi per proporre a Napoleone di lasciare Roma al Pontefice, più una striscia sino al mare. Nel febbraio-marzo 1860 Vittorio Emanuele II, a mezzo dell'abate Stellardi, elemosiniere di Corte, avendo come obiettivo il riordinamento dello Stato Pontificio, proponeva che «il Re di Sardegna esercitasse nella Romagna, nell'Umbria e nelle Marche il potere esecutivo sotto l'alto dominio del Pontefice, la cui suprema autorità avrebbe formalmente riconosciuta e rispettata».
L'11 ottobre 1860 Cavour pronunzia un discorso e dice: «durante gli ultimi 12 anni la stella polare di Vittorio Emanuele fu l'aspirazione all'indipendenza nazionale. Quale sarà questa stella riguardo a Roma? La nostra stella, o signori, ve lo dichiaro apertamente, è di fare che la Città eterna, nella quale venticinque secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida capitale del Regno italiano. Affermai e ripeto che il problema di Roma non può, a mio avviso, essere sciolto con la sola spada».
Gli avvenimenti precipitano. Nel dicembre 1860 si scioglie la Camera; il 27 gennaio 1861 ci sono i comizi elettorali in tutta la penisola, esclusi il Lazio e la Venezia Euganea il 19 febbraio 1861 si apre l'ottava legislatura, la prima del Parlamento italiano; il 2 febbraio 1861 si approva, al Senato, con due voti contrari un disegno di legge per la proclamazione di Vittorio Emanuele Il Re d'Italia. Il 15 marzo 1861 lo stesso progetto di legge viene approvato ad unanimità dalla Camera. II Cardinale Antonelli in nome del Pontefice manda in data 15 aprile una protesta agli Stati. Ma intanto Cavour, come sarà più ampiamente documentato nei volumi che sono in corso di stampa, aveva veramente l'angoscia di giungere a una conclusione nelle trattative col Sommo Pontefice.
Tra il 2 e il 3 febbraio del 1861 Cavour proponeva al Cardinale Antonelli, per mezzo di Omero Bozini di Vercelli, quanto segue:
«a) che la Corte Romana riconoscesse e consacrasse Vittorio Emanuele Re d'Italia;
«b) che il Papa conservasse il diritto di alta sovranità sopra il patrimonio di San Pietro, il quale però sarebbe governato da Vittorio Emanuele e suoi successori quali vicari del Sommo Pontefice ».
Ad altre trattative più importanti parteciparono, come ognuno di voi sa, il padre Passaglia, Diomede Pantaleoni, Antonino Isaia. Queste trattative falliscono. Il 18 marzo 1861 Pio IX dichiara solennemente nel Concistoro di respingere qualsiasi conciliazione. Il moto si accelera ancora di più. Il 25 marzo 1861 Cavour si fa interpellare dal deputato Audinot, e in quella e in una successiva seduta pronuncia due discorsi che lo pongono nell'empireo degli uomini politici di tutti i tempi e di tutte le nazioni. Questo freddo piemontese trova accenti così solenni, così passionali, così ferrei per rivendicare il diritto dell'Italia su Roma, che ancora oggi, a distanza di sessant'anni, non si possono leggere quelle pagine senza essere pervasi da una intima, intensa, profonda commozione. Tuttavia egli non disperava di concludere. Sino all'ultimo momento, quando stava per morire, egli diceva al frate che lo confessava «Frate, frate, libera Chiesa in libero Stato» .
* * *
Prima di tutto Cavour era un cattolico, credente e praticante. La sua tesi era questa: non si poteva andare a Roma con la violenza, la violenza doveva essere la extrema ratio, bisognava andarvi d'accordo con la Francia poiché è difficile scindere la politica cavouriana dalla alleanza con la Francia. Bisognava lasciare al Pontefice un tanto di territorio sul quale egli fosse sovrano, che la sua sovranità, cioè, fosse ancorata in un territorio, la Città leonina, per intenderci. Poi, finalmente, la formula «libera Chiesa in libero Stato».
Ho molto riflettuto su questa formula; ma io credo che lo stesso Cavour non si rendesse conto che cosa, in realtà, questa formula potesse significare. Libera Chiesa in libero Stato! Ma è possibile? Nelle nazioni cattoliche, no. Le nazioni protestanti hanno risolto il problema, facendo in modo che il Capo dello Stato sia anche il Capo della loro religione, e hanno costituito la Chiesa nazionale. V'è un solo paese fra quelli di razza bianca, dove la formula cavouriana sembra aver trovato la sua applicazione: gli Stati Uniti. Là veramente lo Stato è libero e sovrano, e le Chiese sono libere, ma perché? Perché, come ha detto uno studioso di questi problemi, negli Stati Uniti c'è un polverio di religioni per cui lo Stato non ne può scegliere nessuna, né proteggerne alcuna. Io credo, invece, che Cavour volesse intendere che lo Stato dovesse essere libero completamente e sovrano in quelle che sono le proprie attribuzioni, non soltanto però di ordine materiale pratico, come si vorrebbe dare ad intendere - e su ciò torneremo tra poco -, e che la Chiesa dovesse essere libera per il suo magistero e per la sua missione pastorale e spirituale.
Non si può pensare una separazione nettissima tra questi due enti, perché il cittadino è cattolico e il cattolico è cittadino. Bisogna dunque determinare i confini tra quelle che sono le materie miste. D'altra parte la lotta tra la Chiesa e lo Stato è millenaria: o è l'Imperatore che domina il Papa o è il Papa che domina l'Imperatore. Negli Stati moderni, negli Stati a solida organizzazione costituzionale moderna, dato lo sviluppo dei tempi, si preferisce vivere in regime di Concordato. Io credo che Cavour volesse appunto pensare a una siffatta soluzione del problema dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato.
Siamo all'ultimo decennio, quello che va dal 1860 al 1870. Tentativo disperato di Aspromonte. Due anni dopo, le convenzione di settembre e conseguente dissidio tra gli uomini che guidavano la Rivoluzione italiana e che fu fortissimo.
Intanto che cosa erano le convenzioni di settembre? Un patto firmato a Saint Cloud il 15 settembre 1864 tra il Governo italiano e la Francia, che conteneva queste tre clausole:
1. - L'Italia si impegnava a non attaccare il territorio rimasto dopo il 1860 al Papa e ad impedire, anche con la forza, ogni attacco esteriore a questo territorio;
2. - La Francia ritirava le sue truppe nel termine di tre anni, man mano che veniva riorganizzato l'esercito pontificio;
3. - Il Governo Italiano consentiva la costituzione di questo esercito composto di stranieri.
Parve in quel momento che il Governo italiano, il quale stava per trasportare la sua capitale a Firenze, avesse rinunziato alla conquista di Roma.
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Tuttavia, nel 1867, vi è il tentativo di Mentana, nel 1870 siamo alla conclusione, alla prima conclusione.
In che modo?
Il 2 agosto la Francia ritira le sue truppe, quelle che aveva mandato prima e dopo Mentana. Roma è presidiata da un esercito di stranieri - pochissimi gli italiani - guidati da un generale straniero, il Kanzler. L'8 settembre c'è la missione di Ponza di San Martino, che va a Roma per portare una lettera al Santo Padre.
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S. M. il Re Vittorio Emanuele II nella sua lettera al Sommo Pontefice parlava del «Capo della Cattolicità, circondato dalla devozione del popolo italiano, che doveva conservare sulle sponde del Tevere una sede gloriosa e indipendente da ogni umana sovranità» .
La capitolazione della Città leonina veniva esclusa. In data 29 agosto del 1870 il Ministro degli esteri Visconti Venosta mandava una Circolare agli Ambasciatori e Ministri d'Italia, da comunicare ai Governi, nella quale così si esprimeva:
«Il Sovrano Pontefice conserva la dignità, l'inviolabilità e tutte le altre prerogative della Sovranità e inoltre le preminenze verso il Re e gli altri Sovrani che sono stabilite per consuetudine. Il titolo di Principe e gli onori relativi sono riconosciuti ai Cardinali della Chiesa Romana. La Città leonina resta sotto la piena giurisdizione e sovranità del Pontefice. Si sa che il Tevere divide la città in due parti, di cui l'una situata sulla riva destra del fiume, portò un tempo il nome di Città Santa. La Città leonina contiene oggi una popolazione di 15 mila anime e sarebbe suscettibile di contenerne di più. Possiede una grande quantità di Chiese e Palazzi. La Chiesa di San Pietro, il Vaticano e le sue vaste dipendenze, le tombe degli Apostoli e dei Papi più illustri, i numerosi monumenti religiosi ed artistici fanno della città leonina una città rimarchevole ed una splendida residenza per il Capo sovrano della Cattolicità».
Quando a Villa Albani, nella mattinata del 20 settembre 1870, fu firmata la capitolazione per la resa della piazza di Roma tra il Comandante generale delle truppe di S. M. il Re d'Italia e il Comandante generale delle truppe pontificie, veniva stabilito: «la Città di Roma, tranne la parte che è limitata a sud dai bastioni di Santo Spirito e che comprende il Monte Vaticano, Castel Sant'Angelo e gli edifizi costituenti la Città leonina, il suo armamento completo, bandiere, armi, magazzini di polvere, ecc., saranno consegnati alle truppe di S. M. il Re d'Italia. Tutta la guarnigione del Palazzo uscirà con l'onore delle armi, con bandiere, armi e bagagli, tutte le truppe straniere saranno sciolte e subito rimpatriate per cura del Governo italiano. Le truppe indigene saranno costituite in deposito, senz'armi, e nella giornata di domani saranno mandate a Civitavecchia. Sarà nominata, da ambo le parti, una Commissione composta da un ufficiale d'artiglieria, ecc.». Per l'esercito italiano firmavano il Capo dello Stato Maggiore, generale Domenico Primerano, e il Luogotenente generale comandante il IV Corpo d'Esercito Conte Raffaele Cadorna; per l'altra parte: il generale comandante le armi a Roma, Kanzler.
Voi vedete che, anche quando le truppe di Cadorna entrarono a Roma, non varcarono il Tevere, non si spinsero sulla riva destra del Tevere e anche quando, essendosi determinati disordini nella Città leonina, furono chiesti rinforzi al Generale Cadorna, questi, in una lettera al Cardinale Giovanni Antonelli, rispose che «avrebbe mandato truppe per sedare i tumulti, ma non vi sarebbero rimaste».
Quando fu convocato il Plebiscito, furono esclusi dalla convocazione gli abitanti della Città leonina, i quali però, il 2 ottobre, votarono lo stesso, e la sera si recarono in Campidoglio, dove furono ricevuti dal padre del nostro camerata Blanc, il quale fece passare i trasteverini, col loro plebiscito, colle bandiere e le fiaccole, e il plebiscito fu accolto. Sette giorni dopo, una Commissione si recava da S. M. il Re, a Firenze, per portare il risultato del plebiscito romano.
* * *
Ecco che cosa disse S. M. il Re, ricevendola
«Io, come Re e come Cattolico, nel proclamare l'unità d'Italia, rimango fermo nel proposito di assicurare la libertà della Chiesa e l'indipendenza del Sovrano Pontefice. E con queste dichiarazioni solenni, io accetto dalle vostre mani, egregi signori, il plebiscito di Roma e lo presento agli Italiani, augurando che essi sappiano mostrarsi pari alla gloria dei nostri antichi e degni delle presenti fortune».
Magnifiche parole, degne di un gran Re.
Nello stesso giorno veniva emanato un decreto Reale da Firenze, importantissimo. Questo decreto dice:
«Art. 1. - Roma e la provincia romana fanno parte integrante del Regno d'Italia.
«Art. 2. - Il Sommo Pontefice conserva la dignità, l'inviolabilità e tutte le prerogative personali e sovrane.
«Art. 3. - Con apposita legge verranno sancite le condizioni atte a garantire, anche con la franchigia territoriale, l'indipendenza del Sommo Pontefice e il libero esercizio dell'autorità spirituale della Santa Sede. Il presente decreto sarà presentato al Parlamento per essere convertito in legge ».
Infatti fu presentato al Parlamento e suscitò una grande discussione. Durante questa discussione, in data 20 dicembre, il Ministro degli esteri dei tempo, Visconti Venosta, affermava:
«Si potrà dire, o signori, che questo progetto della Città leonina, di cui l'Europa non fu chiamata a prendere atto, ma che abbiamo invece proposto al Pontefice, non è logico dal punto di vista dell'abolizione del potere temporale, ma io credo che il Paese non ci avrebbe condannato, ma ci avrebbe approvato, se in cambio di questa concessione noi ci fossimo presentati ad esso con la Questione Romana risoluta».
«Era risoluto così il più arduo, il più terribile problema della nostra esistenza nazionale, e sgombrato l'avvenire da ogni incertezza e da ogni difficoltà».
Dovevano passare ancora cinquant'anni perché questo punto di vista del ministro degli esteri del tempo fosse realizzato.
Si parlava, dunque, di franchigie territoriali. A questo punto voi mi direte: « Ma perché questa lezione storica?». Perché voglio dimostrarvi i precedenti, perché voglio dimostrarvi che io sono conseguente, e che non solo noi non rinneghiamo il Risorgimento italiano, ma lo completiamo.
Ci furono in quel torno di tempo, a Firenze, dove era il Parlamento, tre discussioni interessantissime. La prima fu provocata dal progetto di legge per il «trasporto» della Capitale a Roma. Uomini eminentissimi non volevano, all'ultimo momento, procedere a questo «trasporto». Brutta parola. Non ve n'è un'altra . . .
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I mesi che vanno dal settembre al dicembre 1870 furono penosissimi. Proteste, perché si diceva che il segreto epistolare non venisse più osservato; proteste, perché si era dovuto sospendere il Concilio ecumenico; proteste per certe violenze di cui si sarebbero resi colpevoli i soldati dell'Esercito italiano; proteste, infine, per l'occupazione del Quirinale. E Visconti Venosta, Ministro degli esteri del tempo, dovette mandare una lunga circolare a tutti i nostri rappresentanti all’estero per spiegare come qualmente il Re d'Italia aveva il diritto di entrare al Quirinale. I cattolici di tutto il mondo, e di tutta Europa specialmente, protestavano . . .
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Fu gran ventura che, l'Esercito Italiano rimanesse sulla riva sinistra del Tevere. Se il Papa fosse stato espulso dall'ultimo angolo di territorio, dal suo palazzo insomma o se ne fosse andato, gravi problemi si sarebbero affacciati davanti al Governo italiano. Per fortuna, gli avvenimenti erano propizi. Chi poteva commuoversi in quegli anni? Non la Francia, la quale era stata fiaccata dalla Prussia: aveva bisogno di rifarsi, doveva pagare una ingente indennità, ingente allora, adesso sarebbe uno scherzo. Non la Francia, che aveva perduto due provincie di grandissimo pregio, che aveva ritirato le sue truppe da Roma, già da tempo, e che tuttavia aveva lasciato a Civitavecchia, quasi come un biglietto da visita, un bastimento che si chiamava l'Orénoque, e che vi restò fino al 1874. La Germania era l'astro che saliva prepotentemente all'orizzonte in quel periodo di tempo, dopo tre guerre vittoriose: quella del '64 per lo Schleswig-Holstein, quella del '66, che fiaccò l'Austria a Sadowa, e quella del '70: ma la Prussia era protestante. Bismarck non solo non pensava ad aiutare il Papa, ma stava per ingaggiare quella lotta della KuIturkampf dalla quale, bisogna dirlo, egli uscì battuto.
L'Austria aveva nelle ossa tutti i dolori delle guerre del Risorgimento, ed era all'indomani di Sadowa, e soprattutto si trovava di fronte al problema per cui è morta, non avendolo risolto il problema delle sue molteplici razze, le quali avevano allora l'esempio di due popoli che nel corso del secolo XIX erano assurti alla dignità e all'indipendenza di Nazione: il popolo germanico e il popolo italiano. Queste grandi Potenze mandavano, come mandarono in seguito, dei messaggi patetici; ma non sempre con questi messaggi si modifica il corso delle cose o si cambia la storia degli Stati.
Venne così in discussione, in quel torno di tempo, la legge sulle guarentigie in conseguenza del decreto Reale del 9 ottobre, divenuto poi legge. Vi parteciparono, tanto al Senato quanto alla Camera, degli uomini notevoli e taluno di alta rinomanza: Toscanelli, Coppino, Boncompagni, Berti, Bonghi, Crispi, Mancini e, naturalmente, i Ministri. Così al Senato: Cambray-Digny, Menabrea, Capponi, Michele Amari, storico eminentissimo. Infine, la discussione pose di fronte tre tendenze: la Sinistra diceva: «voi date troppo al Papa». Un oratore della Sinistra giunse ad affermare: «se voi date al Sommo Pontefice tanto di terra quanto basta perché egli vi possa posare sopra la sua sacra pantofola, voi restituite il potere temporale al Papa». Precisamente l'on. Salvatore Morelli, nella seduta del 24 gennaio 1871 così si esprimeva: «Quando voi trovate nella legge queste condizioni: inviolabilità, immunità dei luoghi dove siede d'ufficio il Pontefice, senza controllo dello Stato, sudditanza dei poteri politici ed amministrativi dei Regno ai servizi della Curia, lista civile, onori di Re dovuti al Pontefice, internazionalità dei suoi atti e legazie, dominio illimitato di esso sul basso clero, esenzione dei Vescovi dal giuramento: quando voi avete queste condizioni, come potete mettere in dubbio che il potere temporale sia restaurato meglio e più forte di quanto non lo era prima della sua caduta?». Questa era la tesi dell'on. Salvatore Morelli. Viceversa la tesi dell'on. Toscanelli era esattamente agli antipodi: «il Papa non deve sembrare a nessun popolo come soggetto a subire le influenze di qualsiasi Stato: il giorno in cui ciò fosse palese, egli avrebbe perduto il suo carattere di Pastore universale». Quindi Roma, quindi la riva del Tevere, quindi la solita striscia al mare. In mezzo, l'opinione media del Governo di allora che, in realtà, con questa legge delle guarentigie ha creato una sovranità.
Il Papa non era più un suddito, era un sovrano. Usando la terminologia di moda importata dall'americanismo, potremo dire che questa sovranità era al cento per cento? No, non era al cento per cento: mancava qualche cosa, mancava il territorio. C'è la frase tipica: «continua a godere»; ma in realtà era un tacito riconoscimento di una sovranità territoriale; tant'è vero che negli anni che seguirono, giammai ci fu un atto dello Stato italiano che rivendicasse, anche lontanamente, una qualsiasi sovranità nella cinta del Vaticano. A ciò si ridussero le «franchigie territoriali» previste dal già ricordato decreto Reale dell'ottobre 1870.
La legge non fu accettata. Alla fine del 1871 l'Italia e Roma erano in questa singolare posizione: il Re usurpatore, il Papa prigioniero. Il Papa, che non riconosceva l'unità della Patria, che non riconosceva la conquista di Roma e che protestava violentemente in tutti i suoi atti pubblici e diplomatici contro la conquista di Roma, realizzata dalla Rivoluzione italiana. Tempi duri, quelli! Tempi foschi! È solo nel 1874 che appare uno spiraglio di luce; e questo spiraglio di luce è legato al nome del vescovo Bonomelli. Bisogna ricordare con molta simpatia, anche noi Fascisti, quella bella, degnissima figura di patriota e di sacerdote!. . .
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Nel 1878 muore il gran Re. V'è nel clero un moto di riaccostamento alla Nazione, malgrado i veti delle supreme gerarchie della Chiesa. In molte città d'Italia, specialmente della Lombardia, specialmente della Provincia di Cremona, Vescovi e Parroci celebrano grandi funerali alla memoria del Re.
Ma il periodo più interessante nella storia della Conciliazione è quello che va dall'80 al '90, e che comincia nel 1881, col discorso tenuto da Mons. Geremia Bonomelli, nel Duomo di Milano, presenti 16 Vescovi, e centinaia di sacerdoti, nel quale discorso il Vescovo affermava che la pace doveva farsi e che oramai la conquista di Roma doveva essere ritenuta un fatto compiuto e irrevocabile. In quel periodo di tempo, gli alti e i bassi della Conciliazione furono infiniti. Quando il Re Umberto si recò a Firenze ad inaugurare la nuova facciata di Santa Maria del Fiore e fu ricevuto dal Vescovo, tutti credettero che la conciliazione fosse imminente. Quando, di lì a qualche tempo, il Re si recò a Terni, e vi fu ricevuto dal Vescovo di Terni, con tutti gli onori dovuti a un sovrano, l'emozione fu grandissima, perché Terni apparteneva agli ex Stati pontifici. Tutti si occupavano di conciliazione. Se ne occupavano i Vescovi e i garibaldini. Stefano Türr, per esempio, sentì il bisogno di stampare un opuscolo a Parigi per raccomandare ed esaltare la Conciliazione.
Non meno interessante fu l'atteggiamento tenuto in quell'epoca dal garibaldino Achille Fazzari, il quale era un valoroso, aveva combattuto ad Aspromonte e a Mentana ed era stato ferito a Monte Libretti. Giuseppe Garibaldi dedicandogli un sonetto lo chiamava «Mio caro figlio». Questo energico calabrese stampò nel principio del 1886 una lettera ai suoi elettori di Catanzaro, che cominciava con queste parole: «bisogna fare la Conciliazione». Questa tesi egli sostenne in lunghe vivaci polemiche superanti anche le frontiere . . .
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È di questo decennio singolarissimo l'episodio Tosti, «quel buon matto di Tosti», come lo chiamava Pio IX. Quando usci il suo opuscolo, il clamore fu infinito, ma l'Osservatore Romano lo bollava con queste parole: «è uscito il monumento ciclopico della ingenuità cassinese». Era il momento in cui non si mollava.
Leone XIII, visto che Bismarck non marciava, malgrado la démarche Galimberti, e visto che anche Francesco Giuseppe si limitava a generiche assicurazioni, manifestava il desiderio che fosse tolto di mezzo il funesto dissidio; però l'Osservatore Romano del 28 maggio 1887 aggiungeva: «la giustizia è una sola e inflessibile. Essa importa la restituzione di quanto fu tolto e la riparazione dei diritti della Santa Sede violati dalle congiure delle sètte; importa il ristabilimento del potere temporale, specialmente sulla Città di Roma».
Nel 1887 eravamo dunque in pieno temporalismo. La città di Roma era il minimo delle pretese . . . . .
Padre Tosti aveva scritto un opuscolo, il cui protagonista si chiamava «Don Pacifico». Era un ottimo personaggio, questo frate, ma apparteneva al genere di quegli uomini che sono espansivi al sommo grado e panglossiani altresì, che credono che certe questioni grossissime possano essere risolte con una parola, con un gesto, con un sorriso. Egli pensava che un incontro tra Umberto e il Papa avrebbe condotto alla pace, che tutto consistesse nel combinare questo incontro. Non era quindi un problema politico; era più un problema di procedura, oserei dire di protocollo. Don Davide Albertario, il tempestoso Don Albertario, il nemico di Geremia Bonomelli, scrisse subito un contropuscolo, e se il protagonista dell'opuscolo del Tosti fu «Don Pacifico», il protagonista del contropuscolo dell'Albertario si chiamava «Don Belligero», e aveva inalberato quest'insegna: «restituzione o dannazione».
È singolare che il libro di Mons. Geremia Bonomelli, stampato nel 1889, dopo essere stato pubblicato come articolo sulla Rassegna Nazionale, pur essendo giunto alla quinta edizione allora, oggi sia quasi introvabile. Ho dato ordine che sia ristampato.
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Ma che cosa proponeva Mons. Bonomelli? Citiamo testualmente dal suo opuscolo:
«Dunque diasi al Papa almeno la riva destra di Roma, con una striscia fino al mare, con una zona di qualche chilometro dietro al Vaticano, dove si potrebbe a poco a poco fabbricare una città nuova; essa sarebbe un Principato di Monaco, una piccola repubblica di San Marino, o delle Andorre, alcun che di simile. Qui non vi sarebbe alcun bisogno di pubblici uffici, né di guarnigioni, per la sua piccolezza non potrebbe suscitare timori e gelosie nel Governo Italiano, né in altri Governi. Sarebbe un Vaticano allargato con una popolazione di una diecina di migliaia di anime o poco più. Pel Governo non creerebbe alcun imbarazzo e lo libererebbe da molti e tosto. Sarebbe una miniatura di Stato, senza noie, senza cura, senza pericoli pel Papa, un ornamento per la Roma regia, una singolarità per l'Europa. Tutti gli uffici ecclesiastici trasportati nella nuova Sion, con le sue poste e telegrafi, con un tronco di ferrovia e tutti gli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede alloggiati intorno al Vaticano, quasi testimoni e sentinelle veglianti alla sua sicurezza.
«La nuova cittadella sarebbe una terra di Gessen, un'oasi felice, un santuario nel cuore d'Italia, un asilo di pace, il porto sicuro e tranquillo, il punto che irraggi lume su tutta la terra e «al qual si traggon d'ogni parte i pesi», il centro del mondo cattolico, la novella Sion, donde partirebbero gli oracoli e le parole di vita. Quale spettacolo! Qual gloria per l'Italia nostra! Da una parte, sul Quirinale, il Re d'Italia; dall'altra, la forza morale, la prima forza morale d'Italia e del mondo dall'una parte la spada, dall'altra il pastorale; dall'una parte il Pontefice che prega e benedice; dall'altra il Re, che impera: dall'una parte l'uomo della pace, dall'altra l'uomo della guerra; dall'una parte gl'interessi del cielo e delle anime, dall'altra gli interessi della terra e dei corpi; dall'una parte muovono le schiere dei pacifici conquistatori, che portano la civiltà del Vangelo alle terre più lontane, dall'altra, muovono gli eserciti che difendono le frontiere della Patria e si regolano le flotte che solcano i mari: da una parte si curano i bisogni del tempo, dall'altra si provvede a quelli della eternità. I mille e mille pellegrini, laici e religiosi, missionarii, suore, Vescovi, uomini d'arti, di scienze, di lettere e d'armi che accorrono a Roma, dopo aver visitato la Roma antica dei Cesari, la nuova Roma d'Italia, varcando il Tevere deporrebbero a' piedi del Pontefice i loro omaggi, ammirerebbero la grandezza e le glorie di Roma cristiana cattolica. La destra e la sinistra del Tevere, il Quirinale e il Vaticano, il Papa ed il Re, la religione e la patria, riunirebbero a vicenda i riflessi del loro splendore, i raggi della loro gloria, e il grido di giubilo di tutta Italia pacificata saluterebbe il Maestro infallibile della Fede e il difensore della Patria. La destra e la sinistra dei Tevere, sarebbero i due fuochi della ellissi italiana, come scriveva Vincenzo Gioberti. L'Italia sarebbe ancora la terra privilegiata, faro del mondo e segno di invidia ai popoli. I nostri occhi verserebbero lacrime di gioia inesprimibile; i nostri cuori balzerebbero concitati, colmi, riboccanti di giubilo in quel dì, che il Re e l'amabile Regina col giovane Principe, accompagnati dalla Corte salissero le scale del Vaticano, e il candido Vegliardo, che vi risiede, muovesse loro incontro e si abbracciassero, e i due grandi e supremi amori della Religione e della Patria si confondessero in un solo e santo amore. Quel giorno, nel quale il Vegliardo del Vaticano uscisse e si volgesse al Quirinale, tutta Roma si precipiterebbe su i suoi passi, cadrebbe ginocchioni, leverebbe le mani a lui, acclamando e benedicendo: festa simile a quella l'Italia non l'avrebbe mai vista. La bocca della empietà sarebbe chiusa, la Religione tornerebbe regina, e il suo trionfo sarebbe assicurato. Io domando al cielo di poter veder quel giorno avventurato, e poi morire.
«Ma dove sono? Ho io sognato? Sì, ma talvolta i sogni sono profetici, e chi sa che Iddio pietoso, che amò l'Italia sopra tutte le nazioni, che la sostituì al popolo eletto, che la fè centro del mondo cattolico, alle altre innumerevoli prove dell'amor suo aggiunga anche questa!».
E più oltre:
«Ma perché questa miniatura di Stato indipendente, neutralizzato, sulla destra del Tevere, sia possibile e durevole, che cosa si esige? Che sia creata, non da forza straniera, né materiale, né morale, ma dagli italiani stessi. Questa nuova creazione deve erompere dalla persuasione intima, spontanea della nazione, la quale sa di far cosa utile e necessaria a se stessa, che lungi dall'affievolirla la rafforza, lungi dal dividerla la unisce, lungi dall'umiliarla l'onora altamente in faccia al mondo. Onora e afforza altresì la S. Sede, perché assicura la sua indipendenza e dignità, perché disarma un partito potente, che la combatte, perché mostra al mondo il suo amore per la pace, per l'unità d'Italia, perché l'opera del Clero sarà più libera e fruttuosa e avrà nel Parlamento e nel Senato voci eloquenti che difenderanno gli interessi morali e religiosi senza timore di sentirsi dire in faccia: Voi siete nemico della Patria! Questa sovranità in miniatura scioglie la Santa Sede dalle cure secolaresche, che in passato le recarono non piccolo danno, la libera delle noie e lotte diplomatiche, perché la piccolezza sua sarebbe una quantità minima negli affari politici d'Europa, e, sia pace, sia guerra, il Papa non avrebbe di che temere. Su quell'Eden fortunato e tranquillo sarebbe perpetuo il sorriso del cielo, sempre pura e limpida la luce del sole. Questa Conciliazione e questa creazione d'una sovranità vera in sé, ma nominale quanto all'importanza materiale, potrebbe ricevere la sanzione delle Potenze e avere unitamente alla legge delle guarentigie, opportunamente modificata, una saldezza maggiore, quella saldezza che è possibile nelle cose umane, giacché una saldezza assoluta non c'era nell'antico Potere temporale, né è delle cose nostre sulla terra».
Intanto il decennio 1880-1890 che fu tumultuoso ed agitato per la Conciliazione, per le polemiche che ad essa si riattaccavano, per i vani tentativi di Crispi, cominciava nel 1881 con le scene veramente scandalose che si svolsero a Roma, quando vi fu il trasporto notturno della Salma di Pio IX, dal Vaticano a San Lorenzo, e si concludeva nel 1889 con l'inaugurazione del monumento a Giordano Bruno. La tensione tra le due potestà in quel periodo di tempo fu acutissima.
Veniamo all'ultimo decennio. Nel 1892 c'è un avvenimento che ha la sua importanza nella storia politica italiana. A Genova, nella sala Sivori, il Partito socialista si stacca dal complesso degli anarchici e anarcoidi. Nel 1895 nuova tensione fra lo Stato e la Santa Sede, quando un deputato, Vischi, propone, sostenuto dall'on. Pilade Mazza e da altri, che il 20 settembre fosse proclamato festa nazionale. Ma intanto negli anni 1893-94, l'Italia, dalla Sicilia alla Lunigiana, fu scossa da un moto di carattere sociale. Nuove masse stavano per entrare nella vita della nazione con diversi bisogni e diversi ideali.
C'era qualche cosa che maturava nel sottosuolo. Pochi anni dopo il Pontefice Pio X sale al fastigio supremo; ma la situazione non cambia. Questo Papa che debella il modernismo, questo Papa, che per la prima volta toglie il veto, il non expedit agli emigrati all'interno, come erano chiamati i cattolici dopo il 1870, questo Papa che immette tutte le forze cattoliche nella vita della Nazione, è tuttavia il Papa che mantiene la sua univoca protesta e la mantiene in un modo clamorosissimo, signori, rompendo le relazioni diplomatiche con la Francia che aveva mandato Loubet a visitare il Re d'Italia nella Capitale. Ma intanto, che cosa era accaduto? Dal 1880 al 1905 tutto il tessuto della vita sociale italiana si era trasformato.
Se negli anni dal 1839 al 1842 apparvero le prime timide ferrovie tra Napoli e Portici, Milano e Monza, dal 1875 al 1905, in quei trenta anni, il tessuto sociale, economico della nazione italiana, si trasforma profondamente, nasce una borghesia - uso questa parola anacronistica per intenderci meglio - . . .
È vero che il Papa Pio X tende a rafforzare il carattere universalistico del papato, ma sa che per mantenere questo carattere universalistico, il Papa deve in qualche parte del globo terracqueo essere sovrano, e questa sovranità non gli può essere riconosciuta che nelle forme con le quali il Fascismo gliel'ha data.
Siamo alla Guerra mondiale. C'è una dichiarazione importantissima, del 20 giugno 1915 e di cui bisogna tener conto. Notate - sia detto per incidenza - che alcuni mesi dopo la dichiarazione di guerra, il Re di Spagna era disposto a cedere al Papa il palazzo dell'Escuriale, e i Vescovi spagnoli, con pubblica lettera, ne fecero offerta formale a Benedetto XV. Nel pieno della guerra mondiale, quando già l'Italia era intervenuta da un mese, il Cardinale Gasparri dichiarava che la Santa Sede aspettava la sistemazione della sua situazione in Italia, non dalle armi straniere, ma dal senso di giustizia del popolo italiano, nel suo verace interesse. Questa ripulsa di qualsiasi intervento straniero schiariva l'orizzonte e facilitava enormemente la soluzione della questione.
Nel 1919 ci furono degli approcci tra la Santa Sede e il Presidente del Consiglio di allora, on. Orlando. È una pagina di storia inedita che io vi leggo e che è molto interessante. Nel maggio 1919 il prelato americano Mons. Kelley, ora vescovo di Oklanoma, negli Stati Uniti, si trovava a Parigi per sostenere presso la Conferenza della Pace la causa dei vescovi messicani, allora in esilio negli Stati Uniti per la rivoluzione di Carranza. Dal Cardinale Mercier egli fu invitato a sondare il terreno presso le persone influenti intorno alla Conferenza per vedere se fosse possibile trattare della soluzione della Questione Romana. Il 17 maggio egli incontrò il Signor Brambilla, consigliere della Delegazione Italiana alla Conferenza della Pace, che egli già conosceva, e il discorso venne sulla Questione Romana. Il Brambilla lo invitò per l'indomani a recarsi presso di lui all'Hôtel Ritz, dove lo avrebbe fatto incontrare con «un importante personaggio». L'importante personaggio era l'on. Orlando, che in quel colloquio trattò a fondo della Questione Romana, esaminando le convenienze e le possibilità pratiche di una sua soluzione.
Quantunque Monsignor Kelley dichiarasse di non avere nessuna autorità a trattare e di agire soltanto per propria personale iniziativa, la discussione volse anche intorno ai punti sostanziali dell'eventuale soluzione. Si parlò di un territorio che cominciasse da Ponte Sant'Angelo, includendovi il Castello, di uno sbocco al mare e di una garanzia delle altre nazioni, da ottenersi attraverso la Lega delle Nazioni.
Monsignor Kelley doveva partire all'indomani per l'America, ma avendo il piroscafo ritardato di due giorni la partenza, tra il 18 e il 20 maggio, Brambilla ben cinque volte, a nome di Orlando, insistette presso il Prelato perché invece di tornare in America, andasse a Roma, a riferire al Cardinale Segretario di Stato. Monsignor Kelley alla fine acconsentì, e arrivò a Roma il 22 maggio, lo stesso giorno andò in Vaticano da Mons. Cerretti, allora Segretario degli Affari ecclesiastici straordinari, che lo accompagnò subito dal Cardinale Gasparri, al quale espose tutto colla massima precisione.
Il Cardinale e Monsignor Cerretti andarono subito dal Papa e tornarono, dopo un'ora, dicendo che lo stesso Mons. Cerretti il giorno 24 sarebbe partito per Parigi per incontrarsi con Orlando, e che Monsignor Kelley lo avrebbe accompagnato, senza però più occuparsi della Questione Romana.
Il primo giugno, previi accordi con Brambilla, Mons. Cerretti si incontrò con l'on. Orlando nella camera 135 dell'Hôtel Ritz. Orlando confermò tutta la conversazione avuta con Mons. Kelley. Monsignor Cerretti gli sottopose un breve esposto della Questione e della sua possibile soluzione, scritto di propria mano dal Cardinale Segretario di Stato.
Finita la lettura del documento, Orlando disse che, in massima, accettava, e si passò alla discussione dei punti principali.
Si trattava sempre di una notevole estensione territoriale, la quale il promemoria del Vaticano domandava cominciasse dal fiume, per avere in questo una visibile linea di confine che comprendesse i Borghi e altro territorio notevole di là dal Vaticano. Orlando preferiva invece che il territorio cominciasse con il Vaticano e si estendesse dietro questo per escludere una parte molto abitata della città. Si concluse che la questione del territorio si sarebbe potuta più agevolmente discutere poi, perché, una volta assodata la base territoriale, la maggiore o minore estensione del territorio stesso diventava una questione intorno alla quale sarebbe stato facile trattare. Un altro punto importante della discussione fu intorno al riconoscimento delle altre Potenze, perché, secondo il promemoria, il territorio Pontificio avrebbe dovuto essere garantito anche dalle altre nazioni. Questa garanzia si sarebbe potuta chiedere e ottenere attraverso la Società delle Nazioni, che appariva allora all'orizzonte e della quale in quel momento si aveva un concetto molto maggiore di quella che fu poi la realtà. L'on. Orlando disse che l'Italia stessa avrebbe domandato a questo scopo l'entrata della Santa Sede nella Lega.
Il 9 giugno Brambilla, per incarico di Orlando, andò da Monsignor Cerretti a dirgli che il Presidente aveva incaricato l'on. Colosimo di informare del progetto tutti i Ministri ed il Re, ed infatti in quei giorni i giornali annunziarono che l'on. Colosimo era stato ricevuto dal Sovrano. Ma il 15 giugno, l'on. Orlando, tornato a Roma, ed affrontato il voto della Camera, si trovò in minoranza e diede le dimissioni.
Di queste trattative si ha la documentazione nelle note tanto di Mons. Kelly, quanto di Mons. Cerretti, ora Cardinale. Le note anzi di Mons. Cerretti, furono mostrate qualche tempo dopo gli avvenimenti allo stesso on. Orlando, che le trovò pienamente esatte.
Le conversazioni con i successori di Orlando - pre-fascismo - non ebbero altra base che quella stessa che era stata messa con l'on. Orlando, e furono anche meno importanti di quelle avvenute con quest'ultimo.
Intanto la Francia ritornava a Roma, chiudendo la parentesi della rottura prodotta dalla visita di Loubet al Re d'Italia nel 1904. Millerand, in nome del Governo Francese, così si esprimeva: «il Governo della Repubblica giudica venuto il momento di riannodare col Governo Pontificio le nostre relazioni tradizionali. Il Governo Francese deve essere presente laddove si dibattono questioni che interessano la Francia. Questa non potrebbe restare più a lungo assente dal Governo Spirituale, presso il quale la più parte degli Stati hanno avuto cura di farsi rappresentare».
Tutti gli Stati, signori, meno l'Italia. Vi consiglio di procurarvi l'Annuario Pontificio del 1929, perché vi troverete l'elenco di tutti i diplomatici accreditati presso la Santa Sede, e avrete anche una idea della potentissima organizzazione cattolica in tutto il mondo.
Naturalmente, il ritorno della Francia a Roma suscitò delle polemiche di cui è rimasta traccia in una pubblicazione del Ministero degli Esteri, che vi consiglio di leggere anche per abbreviare il mio discorso. È intitolata: «Una nuova discussione su i rapporti fra la Chiesa e lo Stato in Italia».
Tutti i giornali dell'epoca avvertivano essere ora di concludere e che, essendo oramai tutte le Potenze civili rappresentate presso il Vaticano, era veramente, alla fine, grottesco che non vi fosse rappresentata la Potenza Italiana. Si pubblicarono degli opuscoli curiosi, in quel periodo di tempo. Uno di questi opuscoli, a firma Constantinus, - qualcuno volle vedervi sotto un eminentissimo personaggio della Corte Vaticana, ma in realtà si trattava di un importante personaggio sì, ma laico, - annunziava e proponeva uno schema di Trattato di Pace tra l'Italia e la Santa Sede. All'art. 2 diceva: «le Alte Parti contraenti dichiarano a vicenda di riconoscere pacifica la situazione territoriale determinatasi dopo quell'epoca, salvo quanto è stabilito nel seguente Trattato». Quindi, uno stato di fatto che doveva diventare uno stato di diritto.
Di notevole importanza un opuscolo, intitolato: Il partito popolare - quello defunto - e la Questione Romana, nel qual si affermava che bisognava riconoscere la sovranità della Santa Sede sui Palazzi Vaticani.
Altro avvenimento di maggiore importanza fu la deliberazione con cui il Papa non faceva più proteste per visite di Sovrani cattolici a Roma. Eravamo entrati in un periodo di distensione dei nervi. Questa distensione si accrebbe con l'assunzione alle Somme Chiavi di Papa Achille Ratti, quando, per la prima volta dopo il 1870, il Papa apparve alla loggia esterna di San Pietro e benedisse la folla immensa.
Gli italiani ebbero l'impressione che, con questo Pontefice, qualche cosa si sarebbe concluso. E, naturalmente, le speranze precedettero gli eventi e si credette che la cosa sarebbe stata facile, semplice, rapida. Si pensava che il nuovo Papa non avrebbe insistito sulla posizione ormai tradizionale di tutti i Pontefici. Errore. Difatti, nella prima Enciclica di Pio XI, il punto di vista riaffermato continuamente dalla Santa Sede veniva ancora una volta illustrato. Si ricordavano in essa la natura divina della sovranità Pontificia, gli inviolabili diritti delle coscienze di milioni di fedeli in tutto il mondo e la necessità che questa stessa sovranità non apparisse soggetta ad alcuna umana autorità o legge, sia pure una legge che portasse delle guarentigie per la libertà del Romano Pontefice, ma fosse del tutto indipendente e tale anche manifestamente apparisse.
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Intanto il Fascismo faceva una politica religiosa, sanamente religiosa. I fatti di questa politica vi sono stati prospettati qui da molti oratori; non avevamo fobie, né scrupoli.
Il Fascismo fu il primo a proteggere le processioni: grandi centenari si svolsero nella più grande tranquillità; l'anno del Giubileo fu perfetto. Fascisti della prima ora figuravano nel comitato per il Congresso Eucaristico a Bologna. Politica sincera, risultato di posizioni dottrinali nettamente stabilite.
Si andò anche più in là: si cercò di rivedere tutta la materia della legislazione ecclesiastica.
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Tuttavia, quando pareva si dovesse concludere, il 18 febbraio 1926, riferendosi ai lavori compiuti dalla Commissione mista per la riforma della legislazione ecclesiastica, il Papa affermava: «che nessuna conveniente trattativa, nessun legittimo accordo aveva avuto luogo, né poteva aver luogo, finché durasse l'iniqua condizione fatta alla Santa Sede e al Romano Pontefice».
Voi vedete da queste citazioni che la intransigenza dei Papi da questo punto di vista è stata sempre immutabile.
Questa ultima dichiarazione del Papa ha la data del 18 febbraio 1926. Siamo nell'anno in cui cominciano le trattative. Nell'estate del 1926 io non pensavo, a dirvelo schiettamente, a risolvere la Questione Romana. C'era un problema che mi angustiava in quell'epoca, il problema della lira. Sentivo quel problema come uno dei problemi del Regime, del prestigio, della dignità, della solidità del Regime. E ancora oggi, su questo campo, sono intrattabile e inesorabile.
Apro una parentesi per mandare un saluto reverente alla memoria del prof. Barone; uno della Commissione dei 18, giurista di alta fama, fascista, il quale si era dato a queste trattative con un'ansia, con un fervore e con una diligenza d'italiano e di fascista veramente ammirevoli. Si può dire che egli è morto sulla breccia, tanta era l'ansia, con cui seguiva queste lunghe faticose trattative.
Dal suo diario, che io possiedo, risulta che, in data 5 agosto 1926, un Monsignore manifestò al prof. Barone la possibilità di iniziare trattative per risolvere la Questione Romana. Nell'agosto '26 si ha un colloquio Barone-Pacelli; il 23 agosto '26 il Consigliere Barone, a seguito di due precedenti colloqui, espone, in un suo rapporto scritto, quali siano i capisaldi dei propositi della Santa Sede per la sistemazione della Questione Romana. Il 4 ottobre 1926, Mussolini consegna al Consigliere Barone un autografo col quale lo incarica di chiedere alla Santa Sede a quali condizioni sia disposta ad addivenire ad una amichevole, generale, definitiva sistemazione dei suoi rapporti con lo Stato italiano. Il 6 ottobre il Cardinale Gasparri scrive a Pacelli rispondendo, in massima, in modo affermativo alle richieste.
Il 10 dicembre 1926 S. M. il Re autorizza l'apertura delle trattative ufficiali.
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Nell'agosto 1926 la Santa Sede poneva le seguenti proposizioni: l'iniziativa deve muovere dal Governo italiano; il Governo italiano deve dichiarare che le trattative si svolgeranno prescindendo dalla legge sulle guarentigie; sulle trattative deve essere mantenuto il più assoluto segreto. E infatti è evidente che se abbiamo concluso, lo si deve anche alla magnifica disciplina che abbiamo imposto al popolo italiano.
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In data 24 ottobre 1926 il Cardinale Segretario di Stato fissava i seguenti punti:
«1. - la condizione cheltra parte, comprovano la tendenza a metter fine ad un dissidio che apportava danni o inconvenienti all'una e all'altra parte, e non starò ora a cercare per minuto a quale delle due li apportasse maggiori».
Precisiamo dunque che c'era un dissidio, che questo dissidio recava dei danni all'una ed all'altra parte, che questo dissidio era componibile e che tentativi in questo senso furono fatti. «La ragione - egli aggiunge - che ci vieta di approvare questo disegno di legge, non è, dunque, nell'idea della conciliazione, ma unicamente nel modo in cui è stata attuata, nelle particolari convenzioni che l'hanno accompagnata, e che formano parte del disegno di legge».
Dunque non è il fatto della conciliazione in sé, è il modo che «ancor l'offende». Ma allora qudiplomatici, prima di aprire le trattative ufficiali;
5. - alla convenzione politica conviene abbinare una convenzione concordataria che regoli la legislazione ecclesiastica in Italia;
6. - è appena necessario aggiungere che le eventuali convenzioni dovranno essere sempre approvate dalla autorità politica e costituzionale in Italia, cioè dal Re e dal Parlamento ».
Finalmente, in data 31 dicembre 1926, io indirizzavo questa lettera a S. E. il Cardinale Segretario di Stato: - «Eminenza! Con riferimento allo scambio di idee avvenuto a mezzo dei nostri fiduciari, Consigliere Barone e prof. Pacelli, in ordine alla possibilità di addivenire a una definitiva e irrevocabile sistemazione dei rapporti tra il Regno d'Italia e la Santa Sede, sistemazione la quale, assicurando alla Santa Sede una posizione di sua soddisfazione, dia luogo al riconoscimento da parte della medesima degli avvenimenti che culminarono nella proclamazione di Roma Capitale del Regno d'Italia, sotto la Dinastia di Casa Savoia, mi è grato di indirizzare a Lei lo stesso Consigliere di Stato dott. prof. Barone, cui conferisco incarico ufficiale di trattare per la formale sistemazione di detti rapporti.
«Queste trattative, alle quali sono autorizzato da S. M. il Re, si svolgeranno da parte del Consigliere Barone, con la più assoluta segretezza e ad referendum. Nella fiducia che esse meneranno a risultato favorevole e che in tal modo potrà essere preparata una nuova era nei rapporti tra l'Italia e la Chiesa, mi è grato rinnovare a V. E. le espressioni del mio profondo ossequio».
Siamo, dunque, alla fine del 1926. Avete veduto come erano poste le premesse dei negoziati. Ecco che, in questo scorcio del 1926, io mi sono trovato di fronte a una di quelle responsabilità che fanno tremare le vene e i polsi di un uomo. Responsabilità tremenda che non solo risolveva una situazione del passato, ma anche impegnava il futuro! E non potevo chiedere consiglio a chicchessia; solo la mia coscienza mi doveva segnare la strada attraverso penose, lunghe meditazioni.
Ma io pensavo e penso che una rivoluzione è rivoluzione solo in quanto affronta e risolve i problemi storici di un popolo. È una rivoluzione il Risorgimento perché affrontò il problema capitale dell'unità e dell'indipendenza italiana; rivoluzione è quella Fascista, che crea il senso dello Stato e risolve, man mano che si presentano, i problemi che il passato le ha lasciato. La Rivoluzione doveva affrontare questo problema, pena la sua impotenza; e le soluzioni erano queste: o dichiarare abolita la legge delle guarentigie e dire: la Rivoluzione Fascista considera il Sommo Pontefice alla stregua del supremo moderatore delle Tavole Valdesi o del Gran Rabbino, soluzione assurda e di un rischio enorme, oppure conservare lo status quo, continuare in questa atonia, in questa cronicità esasperante, indegna di una Rivoluzione.
La terza strada era quella di affrontare il problema in pieno. Perché, quando si diceva: «occorre una sovranità», non si sapeva quali confini questa sovranità dovesse avere. Si andava dal Po al Garigliano. Era la città leonina? Era soltanto il Vaticano? Nessuno poteva rispondere a queste domande prima di averle poste a chi di ragione.
Ebbene, o signori, non abbiamo risuscitato il potere temporale dei Papi: lo abbiamo sepolto. Coi Trattato dell'11 febbraio nessun territorio passa alla Città del Vaticano all'infuori di quello che essa già possiede e che nessuna forza al mondo e nessuna rivoluzione le avrebbe tolto. Non si abbassa la bandiera tricolore, perché là non fu mai issata.
Quando gli inglesi ci lasciarono il Giubaland, all'atto di ammainare la bandiera, la misero in un barile di terra perché volevano che la bandiera inglese fosse ammainata sopra una terra che essi avrebbero portato con loro. Questo vi dice che cosa è la bandiera, che cosa rappresenta nell'anima e nello spirito di una Nazione la bandiera.
E se non vi è cessione di territorio, vi è forse passaggio di sudditi? Nessuno, nessun italiano che non lo voglia per sua propria spontanea volontà, diventerà suddito di quello Stato che noi, con atto spontaneo della nostra volontà di fascisti e di cattolici, abbiamo creato.
Ora, stando così le cose, io mi decisi a continuare le trattative. Bisogna riconoscere che, dall'altra parte, le difficoltà erano notevoli. C'è tutta una tradizione ininterrotta di Papi che avevano reclamato per lo meno Roma, e un Pontefice doveva assumersi la veramente terribile responsabilità di cambiare indirizzo a questa azione. Anche il Santo Padre doveva consultare la propria coscienza, perché, probabilmente, se avesse chiesto consiglio attorno, molti, quelli che ancora sognano i vecchi tempi, quelli che hanno ancora negli orecchi le memorie dell'Orénoque, o le nostalgie dell'intervento straniero, molti di costoro avrebbero agito per dissuaderlo.
Abbiamo avuto la fortuna di avere dinanzi a noi un Pontefice veramente, italiano. Egli non si dorrà, io credo, se la Camera Fascista gli ha tributato questo plauso sincero. Egli è il Capo di tutti i cattolici, la sua posizione è supernazionale. Ma egli è nato in Italia, in terra lombarda e ha, della gente lombarda, la soda praticità e il coraggio delle iniziative. È un uomo che ha molto vissuto all'estero; ciò ha molto acuito, non attenuato, il suo senso di italianità; egli è uno studioso, che accoppia a un sentimento fervidissimo una dottrina formidabile; egli, sopra tutto, sa che il Regime Fascista è un Regime di forza, ma è leale: dà quello che dà e non di più, e lo dà con schiettezza, con franchezza, senza sotterfugi; egli sa che ci sono delle questioni nelle quali siamo intransigenti al pari di Lui. Se durante tutto il 1927 le cose stagnarono e tutto si limitò al mantenimento di personali contatti, ciò si deve al dissidio determinato per l'educazione delle giovani generazioni, per la questione dei boy-scouts cattolici, questione la cui soluzione voi conoscete.
Un altro Regime che non sia il nostro, un Regime demoliberale, un Regime di quelli che noi disprezziamo, può ritenere utile rinunziare all'educazione delle giovani generazioni. Noi, no.
In questo campo siamo intrattabili. Nostro deve essere l'insegnamento. Questi fanciulli debbono essere educati nella nostra fede religiosa, ma noi abbiamo bisogno di integrare questa educazione, abbiamo bisogno di dare a questi giovani il senso della virilità, della potenza, della conquista; sopra tutto abbiamo bisogno di ispirare loro la nostra fede, e accenderli delle nostre speranze.
Nel 1928 conclusa la parentesi «scoutistica», le trattative riprendevano. La Santa Sede aveva chiesto, non veramente in sovranità, ma in proprietà, il terreno intermedio che nomasi la «Valle del Gelsomino» e Villa Doria Pamphilj. Si pensava di mettere nella Villa Doria Pamphilj tutte le Legazioni e le Ambasciate. Questo feriva la mia sensibilità. Io proposi, se veramente la Santa Sede teneva a questa villa, che essa vi riconoscesse in modo indubbio e non equivocabile la sovranità dello Stato italiano, pagando il canone annuo di una lira. È il canone abituale quando si vuole essere gentili. Nello stesso periodo di tempo andai a Racconigi ed informai di ciò S. M. il Re.
È dall'8 novembre 1928 che le trattative volgono, si può dire, a compimento, perché il Papa mi fa sapere che rinuncia a Villa Doria Pamphilj e al territorio intermedio. Infatti, mentre la cessione avrebbe ferito la nostra coscienza di italiani, a che cosa avrebbe giovato all'altra parte? La Città del Vaticano è grande per quello che è, per quello che rappresenta, non per un chilometro quadrato in più o in meno. Bisogna riconoscere che, da questo punto di vista, il Santo Padre è venuto egregiamente incontro al desiderio del Governo italiano. Voglio dire di più, che all'ultimo minuto, il 10 febbraio, alla vigilia della firma degli accordi, quando si trattava di cedere 500 metri quadrati perché sorgesse una cancellata di fronte al Santo Uffizio, quando il Santo Padre seppe che questo turbava la mia coscienza di geloso custode dell'integrità territoriale dello Stato, che non può pensare se non ad accrescere questo territorio, giammai a diminuirlo, il Santo Padre andava ancora oltre i miei desideri, e poiché sarebbe stato un po' grottesco che la facciata di un edificio fosse stata posta a confine di uno Stato, rinunciava all'intero edificio e annessi e lo passava nel novero degli altri che godono soltanto dell'immunità diplomatica.
Dopo la morte del compianto Barone io sentii quasi come un avvertimento del destino. La voce dei negoziati era ormai di dominio pubblico in tutto il mondo. Bisognava affrettare i tempi.
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Talune residuali cellule massoniche, che io ho identificato in tutte le città dove hanno affiorato attraverso certe pubblicazioni di giornali, e simili manifestazioni più o meno vociferatorie, hanno cominciato col sorprendersi che i testi di questi protocolli recassero, a guisa di preambolo, l'invocazione alla SS. Trinità. Permettetemi che io vi erudisca; non c'è nulla di straordinario per cui si possa pensare che lo Stato, in qualche guisa, sia venuto meno a se stesso e alla sua dignità. Non vogliamo proprio risalire a Giustiniano perché dovremmo riportarci al 533, ma sta di fatto che anche nei pubblici trattati tra potenze laiche, quasi sempre fu premessa questa formula.
Gli esempi sovrabbondano.
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Le trattative sono durate trenta mesi. Vi ha avuto grandissima parte l'avv. Pacelli, il quale ha rivelato un animo di forte italiano e di fervente cattolico. L'avv. Pacelli, come lui stesso ha dichiarato, è stato ricevuto non meno di 150 volte dal Sommo Pontefice; il Trattato è stato redatto venti volte, prima di essere licenziato nella sua veste definitiva.
Voi conoscete l'insieme degli atti. Si tratta di un accordo politico, di una convenzione finanziaria e di un Concordato. Mi occuperò di ognuno di questi protocolli. Il più importante evidentemente è il Trattato. Con esso si sana la Questione Romana, anzi, come è detto testualmente, si risolve e si elimina irrevocabilmente; essa è finita, sepolta, non se ne parlerà più, e si crea la Città del Vaticano. Contropartita di questa creazione è da parte del Sommo Pontefice il riconoscimento esplicito e solenne del Regno d'Italia, sotto la Monarchia di Casa Savoia, con Roma Capitale dello Stato italiano.
Avvertite, dunque: c'è la Città del Vaticano, e poi c'è Roma. Dai tempi di Augusto bisogna arrivare al 1870 per trovare ancora una volta Roma capitale dell'Italia ; ma dal 1870 al 1929 c'era ancora una riserva, ancora un'ipoteca di natura morale. Questa ipoteca e questa riserva da parte della più alta autorità religiosa del mondo, scompaiono oggi. Roma è soltanto del Regno d'Italia e degli italiani.
Io spero che voi avvertirete l'enorme importanza di questo fatto. D'altra parte, a prescindere dalla constatazione che sul Vaticano non fu mai compiuto atto di sovranità italiana, nessuno, neanche il più fanatico dell'integrità territoriale, potrà sentirsi diminuito per i 44 ettari che formano la Città del Vaticano; quando, poi, togliete la Piazza San Pietro e la Chiesa vastissima che rimangono di uso promiscuo, la superficie di questa divina Città, di questo Stato, si riduce ancora: è, in ordine di grandezza, veramente irrilevante.
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Naturalmente questa Città del Vaticano è ancora uno Stato sui generis, per il fatto che è circondata da tutti i lati da un altro Stato, per il fatto che ha zone nel suo stesso territorio, di uso promiscuo collo Stato confinante e per altre peculiarità che formeranno la delizia dei commentatori tra qualche tempo.
Io prevedo un'altra abbondantissima letteratura sull'avvenuta soluzione della Questione Romana; ma l'importante è questo: primo, che malgrado certe riserve che avrete notato nelle lettere che ho letto, riserve iniziali, la soluzione è italiana, e nessun'altra potenza vi ha messo verbo. Di più, la Città del Vaticano si dichiara, e noi la dichiariamo perché il testo reca anche la firma del Governo italiano, territorio neutrale ed inviolabile. È evidente che noi saremo i necessari garanti di questa neutralità e di questa inviolabilità, in quanto che, nella remota ipotesi che qualcuno volesse ferirla, dovrebbe prima violare il nostro territorio.
Del resto, noi avremo tutto l'interesse che il Pontefice possa esercitare quella che nel Trattato è giustamente definita «la sua pastorale missione» in perfetta indipendenza di sostanza e di forma, tra la simpatia di tutto il popolo italiano. Finalmente, vi è un'altra condizione nel Trattato, sulla quale richiamo la vostra attenzione, ed è questa: che la Città del Vaticano si dichiara fin da questo momento, e noi vi abbiamo apposto la nostra firma, estranea a tutte le competizioni di ordine temporale che potessero sorgere tra gli Stati, e a tutti i congressi indetti per tale scopo, quindi non solo per i congressi straordinari, ma anche per i congressi ordinari quale è la Società delle Nazioni.
Anche le superstiti cellule, di cui parlavo poco fa, riconoscono che il Trattato è buono e salvaguarda in pieno l'integrità dello Stato. Non ha in sé pericoli. Pensate a quel che era lo Stato Pontificio - quando comprendeva la Romagna, l'Umbria, le Marche e il Lazio - e quando doveva fare una politica di pace e di guerra con i diversi Stati per sostenersi.
Oggi, giustamente, il Santo Padre può affermare che la migliore difesa della sua sovranità sta nella limitazione del territorio della Città del Vaticano. Era così poco ansioso di avere dei sudditi, forse pensando che il più tranquillo sovrano è quello che non ha sudditi, che ha pregato di andarsene tutti coloro che, durante secoli, si erano infiltrati nelle anfrattuesità del Vaticano. La cittadinanza del nuovo Stato è una cittadinanza un po' paradossale. Non si nasce cittadini, si diventa per un atto della propria volontà e si resta cittadini, finché si ha il domicilio stabile là dentro. Una volta che il domicilio stabile cessi, si appartiene ad un'altra nazionalità. D'altra parte, la limitazione numerica di questi cittadini è data dalla consistenza territoriale di questo Stato. Si può calcolare quanti uomini possono abitare su 44 ettari di terra! Tutte le preoccupazioni, dunque, sono completamente infondate.
Vengo alla convenzione finanziaria e al Concordato. Quando si è saputo che esisteva una convenzione finanziaria, anzitutto, per arrotondare le cifre, si è detto che si trattava dì due miliardi. Molto meno! Si tratta, infatti, di 750 milioni in contanti e di un miliardo di Consolidato, il quale però, non è piacevole il constatarlo, si può comperare oggi con 800 milioni.
Sono dunque 1550 milioni, ma di lire carta. Bisogna dividere per tre e sessantasei: sono 400 milioni di lire oro. Poco, quando voi pensate, e scommetto che non ve ne spaventate affatto, che noi abbiamo duecento miliardi di debiti. La cifra è una di quelle che fanno rabbrividire, ma noi rimandiamo i brividi a migliore stagione. Cosa sono 400 milioni di lire oro? Tuttavia la curiosità del pubblico si è manifestata: «Come farete a pagare? Soprattutto, come farete a trovare un miliardo di Consolidato?». Rispondo a questi interrogativi, che io riconosco legittimi. I provvedimenti che si stanno predisponendo presso il Ministero delle Finanze sono tali che si potrà far fronte agli impegni assunti senza aumentare il debito pubblico e senza ricorrere al mercato.
È a proposito del Concordato che la critica vociferatoria all'interno e all'estero ha puntato e aguzzato i suoi strali. Ha torto però, perché io dimostrerò che il Concordato concluso con la Santa Sede è il migliore dal punto di vista dello Stato. Ve lo dimostrerò, o signori, e soprattutto vorrei dimostrarlo a quelli che hanno palesato, nella fattispecie, una singolare ignoranza della situazione. Io paragonerò il nostro Concordato con i quattro Concordati stipulati dalla Santa Sede dopo la guerra, con la Lettonia, la quale è una repubblica baltica che ha soltanto il 23 per cento di cattolici; con la Lituania, altra repubblica che ha l'85 per cento di cattolici; con la Polonia che, su 30 milioni di abitanti, ha soltanto il 63 per cento di cattolici di rito latino e l'11 per cento di rito greco, e con la Baviera che è cattolica, ma che appartiene alla repubblica del Reich.
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Ma nel nostro vi è un'aggiunta, e su questa si sono sbizzarrite le fantasie: «In considerazione del carattere sacro della Città eterna, sede vescovile del Sommo Pontefice, centro del mondo cattolico e meta di pellegrinaggi, il Governo italiano avrà cura di impedire in Roma tutto ciò che possa essere in contrasto col detto carattere». Invece che «avrà cura» si voleva si dicesse: «assume impegno». Ho preferito la formula generica, perché, quando si prendono impegni, si firma una cambiale, e le cambiali bisogna pagarle.
Ma io trovo che è stupefacente lo stupore di coloro che si sono appuntati su questa seconda parte dell'articolo. Ma chi è quel barbaro che può negare il carattere sacro di Roma? Se voi togliete dalla storia del mondo la storia dell'Impero romano, non resta che poco. Se i Romani non avessero in ogni terra lasciato i loro monumenti dal Marocco ad Angora, la nuova capitale della giovane ed amica Turchia, che conserva ancora una lapide col testamento di Augusto, tutta la storia di Roma apparirebbe come una fantastica leggenda. Ma Roma è sacra, perché fu capitale dell'Impero e ci ha lasciato le norme del suo Diritto e le sue reliquie venerabili e memorabili che ancora ci commuovono quando balzano ad ogni momento dalla terra appena frugata. Ma poi è sacra ancora perché è stata la culla del cattolicismo. Tutti i poeti di tutti i tempi ed uomini di tutti i popoli hanno riconosciuto il carattere sacro di Roma!
Qualche volta è motivo di riflessione e di orgoglio pensare che in questo piccolo territorio, tra sette colli e un fiume, si è svolta tanta parte della storia del mondo! Roma ha un carattere sacro, anche perché qui fu portato il Fante Ignoto, simbolo di tutti i sacrifizi di quattro anni della nostra guerra vittoriosa, e ancora bisognerà ricordare che sul Campidoglio, sul colle sacro dell'umanità, c'è un'Ara che ricorda i caduti della nostra Rivoluzione!
Questo carattere sacro di Roma noi lo rispettiamo. Ma è ridicolo pensare, come fu detto, che si dovessero chiudere le Sinagoghe!
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Né bisogna pensare che Roma diventerà una città tetra, dove non ci si potrà più onestamente divertire. Intanto vi dichiaro che non mi dispiace che Roma abbia un suo carattere di gravità. Era quello che si rimproverava a Cromwell quando il puritanesimo lottava contro il realismo. Si rimproveravano i puritani di avere un atteggiamento grave. Lo avevano perché difendevano la vita dell'Inghilterra, perché ne difendevano il carattere, ne preparavano l'avvenire, sia pure attraverso terribili guerre civili, nelle quali perivano Re e Ministri.
Città seria, ma che saprà divertirsi. Del resto, durante il dominio dei Papi ci si divertiva benissimo a Roma.
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Si è detto: in questo Concordato voi fate, dal punto di vista degli obblighi militari, delle concessioni di privilegio agli ecclesiastici. Ebbene, queste concessioni figurano anche in tutti i Concordati precedenti, dai quali io, rappresentante di una Nazione prevalentemente, anzi totalmente cattolica, non potevo prescindere. L'articolo 5 del Concordato polacco è quasi letteralmente simile all'articolo 3 del Concordato italiano. Ma l'articolo 5 del Concordato lituano va molto più in là.
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Veniamo all'articolo 5. Vi si parla degli apostati o irretiti da censura. Su questo articolo c'è stata una discussione assai lunga. Intanto non avrà valore retrospettivo. Ce n'è un migliaio di questi individui che si trovano in tale situazione peculiare. Costoro rimarranno dove sono.
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Per quello che concerne l'articolo 8 si è parlato di Foro ecclesiastico. No, non esiste Foro ecclesiastico, esiste soltanto nello Stato italiano il Foro civile. L'articolo 8 del Concordato italiano è molto men grave dei corrispondenti articoli degli altri Concordati coi quali sto paragonando il nostro.
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Che cosa facciamo noi ? Comunichiamo l'avvenimento all'Ordinario diocesano, perché prenda le sue decisioni in ordine alla gerarchia ecclesiastica. Ma poi i casi sono due: o trattasi di un delitto comune, e allora l'ecclesiastico viene ridotto allo stato laicale e segue la sorte di tutti i condannati comuni; o è un delitto politico, e allora il prevenuto o il condannato avrà tutte le agevolazioni che abbiamo consentito a tutti coloro che sono rei dei delitti del genere.
Un giornalista straniero ha detto che con questo articolo l'Italia è alla merce del Vaticano e che nessuno, all'infuori degli ecclesiastici, potrà godere di simile privilegio. Sarà dunque necessario di dire che il Gran Maestro della massoneria Domizio Torrigiani, da quando fu colpito da incipiente cecità, fu tratto dal confino e messo in una clinica dell'Italia centrale ? Che meraviglia, allora, se domani un Cardinale, ipotesi che ritengo assolutamente assurda, o un Vescovo o un sacerdote condannato per delitto politico siano trattati con i riguardi che tutti i Regimi hanno per questo genere di reati ?
Si è parlato di diritto d'asilo. Se un delinquente fugge in una Chiesa, i Carabinieri gli correranno dietro e lo acciufferanno. D'altra parte è noto che i delinquenti hanno un sacro terrore di fuggire in Chiesa. Temono forse i fulmini della Divinità, oltre che le manette dei Carabinieri! È evidente che, salvo questi casi d'urgenza, la forza pubblica non ha nessun particolare interesse di entrare in Chiesa, se non vi sia chiamata.
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Tutto quello che concerne l'assistenza ai militari è già in atto. Le stesse clausole figurano nei Concordati polacco e lituano. Per quello che riguarda la scelta degli Arcivescovi e dei Vescovi, non abbiamo fatto che prendere le clausole dei Concordati precedenti. Per il giuramento abbiamo preso, come suol dirsi, la clausola della nazione più favorita, cioè la formula del giuramento polacco. Per tutto quello che concerne la nuova sistemazione degli enti e dei beni ecclesiastici, vi parlerà con la sua particolare competenza il collega Guardasigilli.
Adesso veniamo all'articolo 34, l'articolo del matrimonio. Voi sapete a che cosa era ridotto il matrimonio civile in questi ultimi tempi. Siamo noi Fascisti che gli abbiamo dato un po' di stile. Per i piccoli paesi era una cosa qualche volta assolutamente farsesca, con scarsissima dignità, con testimoni racimolati all'ultimo minuto.
Pareva che tutto lo Stato fosse oramai in questi articoli del Codice civile. Voi conoscete, del resto, quante discussioni sono state fatte in Italia su questo argomento. Orbene, onorevoli camerati, in quasi tutti i Paesi civili il matrimonio religioso ha gli effetti civili, in Austria il matrimonio religioso fra i cattolici è valido agli effetti civili senza bisogno di alcuna formalità, il matrimonio civile è riservato soltanto ai «Konfessionslos » o a sposi di culto diverso.
Non siamo dunque soli in questa determinazione di dare, sotto opportune cautele, la validità civile al matrimonio religioso. Molti hanno visto questo problema dal punto di vista metafisico; io lo vedo anche dal punto di vista della comodità. I Comuni in Italia sono 8000, le parrocchie 15.000; che cosa abbiamo fatto? Abbiamo dato al cattolico la possibilità , se lo vuole, di fare la stessa cosa nello stesso tempo e con lo stesso personaggio. Se ciò incoraggerà, insieme con la diminuita età, i matrimoni, e se da questi matrimoni nascerà un'abbondante prole, io ne sarò particolarmente felice. Veniamo all'insegnamento religioso, contemplato nell'art. 36 del nostro Concordato.
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Notate che ho respinto nella maniera più categorica la richiesta d'introdurre l'insegnamento religioso anche nelle Università. La Santa Sede si è convinta che sarebbe, allo stato degli atti, un grave errore.
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L'articolo 37 italiano, corrisponde (in senso più estensivo) all'articolo 7 paragrafo 2 del Concordato bavarese: «Agli scolari degli istituti elementari, medii e superiori, deve essere dato, d'accordo colle superiori autorità ecclesiastiche, modo opportuno e conveniente di adempiere i loro doveri religiosi».
Come vedete, anche per queste clausole nulla si può dire che possa essere interpretato come diminuzione della giurisdizione e sovranità dello Stato. Escluso dall'Università l'insegnamento religioso, resta da determinare come questo insegnamento, che è d'altra parte facoltativo, dovrà svolgersi nelle scuole medie. È evidente che non potrà svolgersi sotto la semplice specie catechistica. Bisognerà che si svolga sotto la specie morale e storica, perché deve essere attraente ed interessante, altrimenti potrebbe dare l'effetto contrario.
Sono arrivato a un altro punto importante del Concordato quello che concerne l'Azione Cattolica.
Intanto l'articolo 43 del nostro Concordato figura nel Concordato lèttone all'articolo 13 che dice: «La Repubblica di Lettonia non porrà ostacoli all'attività - controllata dall'Arcivescovo di Riga - delle Associazioni Cattoliche di Lettonia, le quali avranno gli stessi diritti che le altre Associazioni riconosciute dallo Stato».
L'articolo 25 del concordato lituano è invece più esplicito ancora e dice: «Lo Stato accorderà piena libertà d'organizzazione e di funzionamento alle Associazioni aventi scopi principalmente religiosi, facenti parte dell'Azione Cattolica e come tali dipendenti dall'Autorità dell'Ordinario».
Ciò precisato, non v'è dubbio che, dopo il Concordato del Laterano, non tutte le voci che si sono levate nel campo cattolico erano intonate. Taluni hanno cominciato a fare il processo al Risorgimento; altri ha trovato che la statua di Giordano Bruno a Roma è quasi offensiva. Bisogna che io dichiari che la statua di Giordano Bruno, malinconica come il destino di questo frate, resterà dove è. È vero che quando fu collocata in Campo di Fiori, ci furono delle proteste violentissime; perfino Ruggero Bonghi era contrario, e fu fischiato dagli studenti di Roma; ma ormai ho l'impressione che parrebbe di incrudelire contro questo filosofo, che se errò e persisté nell'errore, pagò. Naturalmente non è nemmeno da pensare che il monumento a Garibaldi sul Gianicolo possa avere un'ubicazione diversa. Nemmeno dal punto di vista del collo del cavallo. Credo che Garibaldi può guardare tranquillamente da quella parte, perché oggi il suo grande spirito è placato! Non solo resterà, ma nella stessa zona sorgerà, a cura del Regime Fascista, il monumento ad Anita Garibaldi.
Si è notato che taluni elementi cattolici, specialmente fra quelli che non hanno tagliato tutti i ponti con le ideologie del partito popolare, stavano intentando dei processi al Risorgimento. Si leggevano appelli di questo genere: moltiplichiamo le file, stringiamo i ranghi, serriamo le schiere, ecc., ecc. ; naturalmente, di fronte a questo frasario, si è tratti a domandarsi: ma che cosa succede ? È curioso che in tre mesi io ho sequestrato più giornali cattolici che nei sette anni precedenti! Era questo forse l'unico modo per ricondurli nell'intonazione giusta!
Non mi piacciono gli individui che hanno l'aria di sfondare energicamente delle porte che sono già state energicamente sfondate! Così taluni elementi avevano l'aria preoccupata, tragica, come per difendersi da pericoli che non esistono. Ragione per cui è opportuno, anche in questa sede, di far sapere che il Regime è vigilante, e che nulla gli sfugge. Nessuno creda che l'ultimo fogliuncolo che esca dall'ultima parrocchia non sia ad un certo momento conosciuto da Mussolini. Non permetteremo resurrezioni di partiti o di organizzazioni che abbiamo per sempre distrutti.
Ognuno si ricordi che il Regime Fascista, quando impegna una battaglia, la conduce a fondo e lascia dietro di sé il deserto. Né si pensi di negare il carattere morale dello Stato Fascista, perché io mi vergognerei di parlare da questa tribuna se non sentissi di rappresentare la forza morale e spirituale dello Stato. Che cosa sarebbe lo Stato se non avesse un suo spirito, una sua morale, che è quella che dà la forza alle sue leggi, e per la quale esso riesce a farsi ubbidire dai cittadini? Che cosa sarebbe lo Stato? Una cosa miserevole, davanti alla quale i cittadini avrebbero il diritto della rivolta o del disprezzo. Lo Stato Fascista rivendica in pieno il suo carattere di eticità: è Cattolico, ma è Fascista, anzi soprattutto, esclusivamente, essenzialmente Fascista. Il Cattolicismo lo integra, e noi lo dichiariamo apertamente, ma nessuno pensi, sotto la specie filosofica o metafisica, di cambiarci le carte in tavola.
Ognuno pensi che non ha di fronte a sé lo Stato agnostico demoliberale, una specie di materasso sul quale tutti passavano a vicenda; ma ha dinanzi a sé uno Stato che è conscio della sua missione e che rappresenta un popolo che cammina, uno Stato che trasforma questo popolo continuamente, anche nel suo aspetto fisico. A questo popolo lo Stato deve dire delle grandi parole, agitare delle grandi idee e dei grandi problemi, non fare soltanto dell'ordinaria amministrazione. Per questa anche dei piccoli Ministri dei piccoli tempi erano sufficienti.
Onorevoli camerati!
Voi avete inteso, e soprattutto deve avere inteso il popolo italiano, devono avere inteso i nostri Fascisti, i migliori dei nostri camerati, che costituiscono sempre la spina dorsale del Regime. Ho parlato netto e chiaro per il popolo italiano: credo che il popolo italiano mi intenderà. Con gli atti dell' 11 febbraio il Fascismo raccomanda il suo nome a' secoli che verranno. Quando, nel punto culminante delle trattative, Camillo Cavour, ansioso, raccomandava a Padre Passaglia: «portatemi il ramoscello d'olivo prima della Pasqua», egli sentiva che questa era la suprema esigenza della coscienza e del divenire della Rivoluzione nazionale.
Oggi, onorevoli camerati, noi possiamo portare questo ramoscello d'olivo sulla tomba del grande costruttore dell'unità italiana, perché soltanto oggi la sua speranza è realizzata, il suo voto è compiuto!
Il Cardinale e Monsignor Cerretti andarono subito dal Papa e tornarono, dopo un'ora, dicendo che lo stesso Mons. Cerretti il giorno 24 sarebbe partito per Parigi per incontrarsi con Orlando, e che Monsignor Kelley lo avrebbe accompagnato, senza però più occuparsi della Questione Romana.
Il primo giugno, previi accordi con Brambilla, Mons. Cerretti si incontrò con l'on. Orlando nella camera 135 dell'Hôtel Ritz. Orlando confermò tutta la conversazione avuta con Mons. Kelley. Monsignor Cerretti gli sottopose un breve esposto della Questione e della sua possibile soluzione, scritto di propria mano dal Cardinale Segretario di Stato.
Finita la lettura del documento, Orlando disse che, in massima, accettava, e si passò alla discussione dei punti principali.
Si trattava sempre di una notevole estensione territoriale, la quale il promemoria del Vaticano domandava cominciasse dal fiume, per avere in questo una visibile linea di confine che comprendesse i Borghi e altro territorio notevole di là dal Vaticano. Orlando preferiva invece che il territorio cominciasse con il Vaticano e si estendesse dietro questo per escludere una parte molto abitata della città. Si concluse che la questione del territorio si sarebbe potuta più agevolmente discutere poi, perché, una volta assodata la base territoriale, la maggiore o minore estensione del territorio stesso diventava una questione intorno alla quale sarebbe stato facile trattare. Un altro punto importante della discussione fu intorno al riconoscimento delle altre Potenze, perché, secondo il promemoria, il territorio Pontificio avrebbe dovuto essere garantito anche dalle altre nazioni. Questa garanzia si sarebbe potuta chiedere e ottenere attraverso la Società delle Nazioni, che appariva allora all'orizzonte e della quale in quel momento si aveva un concetto molto maggiore di quella che fu poi la realtà. L'on. Orlando disse che l'Italia stessa avrebbe domandato a questo scopo l'entrata della Santa Sede nella Lega.
Il 9 giugno Brambilla, per incarico di Orlando, andò da Monsignor Cerretti a dirgli che il Presidente aveva incaricato l'on. Colosimo di informare del progetto tutti i Ministri ed il Re, ed infatti in quei giorni i giornali annunziarono che l'on. Colosimo era stato ricevuto dal Sovrano. Ma il 15 giugno, l'on. Orlando, tornato a Roma, ed affrontato il voto della Camera, si trovò in minoranza e diede le dimissioni.
Di queste trattative si ha la documentazione nelle note tanto di Mons. Kelly, quanto di Mons. Cerretti, ora Cardinale. Le note anzi di Mons. Cerretti, furono mostrate qualche tempo dopo gli avvenimenti allo stesso on. Orlando, che le trovò pienamente esatte.
Le conversazioni con i successori di Orlando - pre-fascismo - non ebbero altra base che quella stessa che era stata messa con l'on. Orlando, e furono anche meno importanti di quelle avvenute con quest'ultimo.
Intanto la Francia ritornava a Roma, chiudendo la parentesi della rottura prodotta dalla visita di Loubet al Re d'Italia nel 1904. Millerand, in nome del Governo Francese, così si esprimeva: «il Governo della Repubblica giudica venuto il momento di riannodare col Governo Pontificio le nostre relazioni tradizionali. Il Governo Francese deve essere presente laddove si dibattono questioni che interessano la Francia. Questa non potrebbe restare più a lungo assente dal Governo Spirituale, presso il quale la più parte degli Stati hanno avuto cura di farsi rappresentare».
Tutti gli Stati, signori, meno l'Italia. Vi consiglio di procurarvi l'Annuario Pontificio del 1929, perché vi troverete l'elenco di tutti i diplomatici accreditati presso la Santa Sede, e avrete anche una idea della potentissima organizzazione cattolica in tutto il mondo.
Naturalmente, il ritorno della Francia a Roma suscitò delle polemiche di cui è rimasta traccia in una pubblicazione del Ministero degli Esteri, che vi consiglio di leggere anche per abbreviare il mio discorso. È intitolata: «Una nuova discussione su i rapporti fra la Chiesa e lo Stato in Italia».
Tutti i giornali dell'epoca avvertivano essere ora di concludere e che, essendo oramai tutte le Potenze civili rappresentate presso il Vaticano, era veramente, alla fine, grottesco che non vi fosse rappresentata la Potenza Italiana. Si pubblicarono degli opuscoli curiosi, in quel periodo di tempo. Uno di questi opuscoli, a firma Constantinus, - qualcuno volle vedervi sotto un eminentissimo personaggio della Corte Vaticana, ma in realtà si trattava di un importante personaggio sì, ma laico, - annunziava e proponeva uno schema di Trattato di Pace tra l'Italia e la Santa Sede. All'art. 2 diceva: «le Alte Parti contraenti dichiarano a vicenda di riconoscere pacifica la situazione territoriale determinatasi dopo quell'epoca, salvo quanto è stabilito nel seguente Trattato». Quindi, uno stato di fatto che doveva diventare uno stato di diritto.
Di notevole importanza un opuscolo, intitolato: Il partito popolare - quello defunto - e la Questione Romana, nel qual si affermava che bisognava riconoscere la sovranità della Santa Sede sui Palazzi Vaticani.
Altro avvenimento di maggiore importanza fu la deliberazione con cui il Papa non faceva più proteste per visite di Sovrani cattolici a Roma. Eravamo entrati in un periodo di distensione dei nervi. Questa distensione si accrebbe con l'assunzione alle Somme Chiavi di Papa Achille Ratti, quando, per la prima volta dopo il 1870, il Papa apparve alla loggia esterna di San Pietro e benedisse la folla immensa.
Gli italiani ebbero l'impressione che, con questo Pontefice, qualche cosa si sarebbe concluso. E, naturalmente, le speranze precedettero gli eventi e si credette che la cosa sarebbe stata facile, semplice, rapida. Si pensava che il nuovo Papa non avrebbe insistito sulla posizione ormai tradizionale di tutti i Pontefici. Errore. Difatti, nella prima Enciclica di Pio XI, il punto di vista riaffermato continuamente dalla Santa Sede veniva ancora una volta illustrato. Si ricordavano in essa la natura divina della sovranità Pontificia, gli inviolabili diritti delle coscienze di milioni di fedeli in tutto il mondo e la necessità che questa stessa sovranità non apparisse soggetta ad alcuna umana autorità o legge, sia pure una legge che portasse delle guarentigie per la libertà del Romano Pontefice, ma fosse del tutto indipendente e tale anche manifestamente apparisse.
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Intanto il Fascismo faceva una politica religiosa, sanamente religiosa. I fatti di questa politica vi sono stati prospettati qui da molti oratori; non avevamo fobie, né scrupoli.
Il Fascismo fu il primo a proteggere le processioni: grandi centenari si svolsero nella più grande tranquillità; l'anno del Giubileo fu perfetto. Fascisti della prima ora figuravano nel comitato per il Congresso Eucaristico a Bologna. Politica sincera, risultato di posizioni dottrinali nettamente stabilite.
Si andò anche più in là: si cercò di rivedere tutta la materia della legislazione ecclesiastica.
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Tuttavia, quando pareva si dovesse concludere, il 18 febbraio 1926, riferendosi ai lavori compiuti dalla Commissione mista per la riforma della legislazione ecclesiastica, il Papa affermava: «che nessuna conveniente trattativa, nessun legittimo accordo aveva avuto luogo, né poteva aver luogo, finché durasse l'iniqua condizione fatta alla Santa Sede e al Romano Pontefice».
Voi vedete da queste citazioni che la intransigenza dei Papi da questo punto di vista è stata sempre immutabile.
Questa ultima dichiarazione del Papa ha la data del 18 febbraio 1926. Siamo nell'anno in cui cominciano le trattative. Nell'estate del 1926 io non pensavo, a dirvelo schiettamente, a risolvere la Questione Romana. C'era un problema che mi angustiava in quell'epoca, il problema della lira. Sentivo quel problema come uno dei problemi del Regime, del prestigio, della dignità, della solidità del Regime. E ancora oggi, su questo campo, sono intrattabile e inesorabile.
Apro una parentesi per mandare un saluto reverente alla memoria del prof. Barone; uno della Commissione dei 18, giurista di alta fama, fascista, il quale si era dato a queste trattative con un'ansia, con un fervore e con una diligenza d'italiano e di fascista veramente ammirevoli. Si può dire che egli è morto sulla breccia, tanta era l'ansia, con cui seguiva queste lunghe faticose trattative.
Dal suo diario, che io possiedo, risulta che, in data 5 agosto 1926, un Monsignore manifestò al prof. Barone la possibilità di iniziare trattative per risolvere la Questione Romana. Nell'agosto '26 si ha un colloquio Barone-Pacelli; il 23 agosto '26 il Consigliere Barone, a seguito di due precedenti colloqui, espone, in un suo rapporto scritto, quali siano i capisaldi dei propositi della Santa Sede per la sistemazione della Questione Romana. Il 4 ottobre 1926, Mussolini consegna al Consigliere Barone un autografo col quale lo incarica di chiedere alla Santa Sede a quali condizioni sia disposta ad addivenire ad una amichevole, generale, definitiva sistemazione dei suoi rapporti con lo Stato italiano. Il 6 ottobre il Cardinale Gasparri scrive a Pacelli rispondendo, in massima, in modo affermativo alle richieste.
Il 10 dicembre 1926 S. M. il Re autorizza l'apertura delle trattative ufficiali.
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Nell'agosto 1926 la Santa Sede poneva le seguenti proposizioni: l'iniziativa deve muovere dal Governo italiano; il Governo italiano deve dichiarare che le trattative si svolgeranno prescindendo dalla legge sulle guarentigie; sulle trattative deve essere mantenuto il più assoluto segreto. E infatti è evidente che se abbiamo concluso, lo si deve anche alla magnifica disciplina che abbiamo imposto al popolo italiano.
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In data 24 ottobre 1926 il Cardinale Segretario di Stato fissava i seguenti punti:
«1. - la condizione cheltra parte, comprovano la tendenza a metter fine ad un dissidio che apportava danni o inconvenienti all'una e all'altra parte, e non starò ora a cercare per minuto a quale delle due li apportasse maggiori».
Precisiamo dunque che c'era un dissidio, che questo dissidio recava dei danni all'una ed all'altra parte, che questo dissidio era componibile e che tentativi in questo senso furono fatti. «La ragione - egli aggiunge - che ci vieta di approvare questo disegno di legge, non è, dunque, nell'idea della conciliazione, ma unicamente nel modo in cui è stata attuata, nelle particolari convenzioni che l'hanno accompagnata, e che formano parte del disegno di legge».
Dunque non è il fatto della conciliazione in sé, è il modo che «ancor l'offende». Ma allora qudiplomatici, prima di aprire le trattative ufficiali;
5. - alla convenzione politica conviene abbinare una convenzione concordataria che regoli la legislazione ecclesiastica in Italia;
6. - è appena necessario aggiungere che le eventuali convenzioni dovranno essere sempre approvate dalla autorità politica e costituzionale in Italia, cioè dal Re e dal Parlamento ».
Finalmente, in data 31 dicembre 1926, io indirizzavo questa lettera a S. E. il Cardinale Segretario di Stato: - «Eminenza! Con riferimento allo scambio di idee avvenuto a mezzo dei nostri fiduciari, Consigliere Barone e prof. Pacelli, in ordine alla possibilità di addivenire a una definitiva e irrevocabile sistemazione dei rapporti tra il Regno d'Italia e la Santa Sede, sistemazione la quale, assicurando alla Santa Sede una posizione di sua soddisfazione, dia luogo al riconoscimento da parte della medesima degli avvenimenti che culminarono nella proclamazione di Roma Capitale del Regno d'Italia, sotto la Dinastia di Casa Savoia, mi è grato di indirizzare a Lei lo stesso Consigliere di Stato dott. prof. Barone, cui conferisco incarico ufficiale di trattare per la formale sistemazione di detti rapporti.
«Queste trattative, alle quali sono autorizzato da S. M. il Re, si svolgeranno da parte del Consigliere Barone, con la più assoluta segretezza e ad referendum. Nella fiducia che esse meneranno a risultato favorevole e che in tal modo potrà essere preparata una nuova era nei rapporti tra l'Italia e la Chiesa, mi è grato rinnovare a V. E. le espressioni del mio profondo ossequio».
Siamo, dunque, alla fine del 1926. Avete veduto come erano poste le premesse dei negoziati. Ecco che, in questo scorcio del 1926, io mi sono trovato di fronte a una di quelle responsabilità che fanno tremare le vene e i polsi di un uomo. Responsabilità tremenda che non solo risolveva una situazione del passato, ma anche impegnava il futuro! E non potevo chiedere consiglio a chicchessia; solo la mia coscienza mi doveva segnare la strada attraverso penose, lunghe meditazioni.
Ma io pensavo e penso che una rivoluzione è rivoluzione solo in quanto affronta e risolve i problemi storici di un popolo. È una rivoluzione il Risorgimento perché affrontò il problema capitale dell'unità e dell'indipendenza italiana; rivoluzione è quella Fascista, che crea il senso dello Stato e risolve, man mano che si presentano, i problemi che il passato le ha lasciato. La Rivoluzione doveva affrontare questo problema, pena la sua impotenza; e le soluzioni erano queste: o dichiarare abolita la legge delle guarentigie e dire: la Rivoluzione Fascista considera il Sommo Pontefice alla stregua del supremo moderatore delle Tavole Valdesi o del Gran Rabbino, soluzione assurda e di un rischio enorme, oppure conservare lo status quo, continuare in questa atonia, in questa cronicità esasperante, indegna di una Rivoluzione.
La terza strada era quella di affrontare il problema in pieno. Perché, quando si diceva: «occorre una sovranità», non si sapeva quali confini questa sovranità dovesse avere. Si andava dal Po al Garigliano. Era la città leonina? Era soltanto il Vaticano? Nessuno poteva rispondere a queste domande prima di averle poste a chi di ragione.
Ebbene, o signori, non abbiamo risuscitato il potere temporale dei Papi: lo abbiamo sepolto. Coi Trattato dell'11 febbraio nessun territorio passa alla Città del Vaticano all'infuori di quello che essa già possiede e che nessuna forza al mondo e nessuna rivoluzione le avrebbe tolto. Non si abbassa la bandiera tricolore, perché là non fu mai issata.
Quando gli inglesi ci lasciarono il Giubaland, all'atto di ammainare la bandiera, la misero in un barile di terra perché volevano che la bandiera inglese fosse ammainata sopra una terra che essi avrebbero portato con loro. Questo vi dice che cosa è la bandiera, che cosa rappresenta nell'anima e nello spirito di una Nazione la bandiera.
E se non vi è cessione di territorio, vi è forse passaggio di sudditi? Nessuno, nessun italiano che non lo voglia per sua propria spontanea volontà, diventerà suddito di quello Stato che noi, con atto spontaneo della nostra volontà di fascisti e di cattolici, abbiamo creato.
Ora, stando così le cose, io mi decisi a continuare le trattative. Bisogna riconoscere che, dall'altra parte, le difficoltà erano notevoli. C'è tutta una tradizione ininterrotta di Papi che avevano reclamato per lo meno Roma, e un Pontefice doveva assumersi la veramente terribile responsabilità di cambiare indirizzo a questa azione. Anche il Santo Padre doveva consultare la propria coscienza, perché, probabilmente, se avesse chiesto consiglio attorno, molti, quelli che ancora sognano i vecchi tempi, quelli che hanno ancora negli orecchi le memorie dell'Orénoque, o le nostalgie dell'intervento straniero, molti di costoro avrebbero agito per dissuaderlo.
Abbiamo avuto la fortuna di avere dinanzi a noi un Pontefice veramente, italiano. Egli non si dorrà, io credo, se la Camera Fascista gli ha tributato questo plauso sincero. Egli è il Capo di tutti i cattolici, la sua posizione è supernazionale. Ma egli è nato in Italia, in terra lombarda e ha, della gente lombarda, la soda praticità e il coraggio delle iniziative. È un uomo che ha molto vissuto all'estero; ciò ha molto acuito, non attenuato, il suo senso di italianità; egli è uno studioso, che accoppia a un sentimento fervidissimo una dottrina formidabile; egli, sopra tutto, sa che il Regime Fascista è un Regime di forza, ma è leale: dà quello che dà e non di più, e lo dà con schiettezza, con franchezza, senza sotterfugi; egli sa che ci sono delle questioni nelle quali siamo intransigenti al pari di Lui. Se durante tutto il 1927 le cose stagnarono e tutto si limitò al mantenimento di personali contatti, ciò si deve al dissidio determinato per l'educazione delle giovani generazioni, per la questione dei boy-scouts cattolici, questione la cui soluzione voi conoscete.
Un altro Regime che non sia il nostro, un Regime demoliberale, un Regime di quelli che noi disprezziamo, può ritenere utile rinunziare all'educazione delle giovani generazioni. Noi, no.
In questo campo siamo intrattabili. Nostro deve essere l'insegnamento. Questi fanciulli debbono essere educati nella nostra fede religiosa, ma noi abbiamo bisogno di integrare questa educazione, abbiamo bisogno di dare a questi giovani il senso della virilità, della potenza, della conquista; sopra tutto abbiamo bisogno di ispirare loro la nostra fede, e accenderli delle nostre speranze.
Nel 1928 conclusa la parentesi «scoutistica», le trattative riprendevano. La Santa Sede aveva chiesto, non veramente in sovranità, ma in proprietà, il terreno intermedio che nomasi la «Valle del Gelsomino» e Villa Doria Pamphilj. Si pensava di mettere nella Villa Doria Pamphilj tutte le Legazioni e le Ambasciate. Questo feriva la mia sensibilità. Io proposi, se veramente la Santa Sede teneva a questa villa, che essa vi riconoscesse in modo indubbio e non equivocabile la sovranità dello Stato italiano, pagando il canone annuo di una lira. È il canone abituale quando si vuole essere gentili. Nello stesso periodo di tempo andai a Racconigi ed informai di ciò S. M. il Re.
È dall'8 novembre 1928 che le trattative volgono, si può dire, a compimento, perché il Papa mi fa sapere che rinuncia a Villa Doria Pamphilj e al territorio intermedio. Infatti, mentre la cessione avrebbe ferito la nostra coscienza di italiani, a che cosa avrebbe giovato all'altra parte? La Città del Vaticano è grande per quello che è, per quello che rappresenta, non per un chilometro quadrato in più o in meno. Bisogna riconoscere che, da questo punto di vista, il Santo Padre è venuto egregiamente incontro al desiderio del Governo italiano. Voglio dire di più, che all'ultimo minuto, il 10 febbraio, alla vigilia della firma degli accordi, quando si trattava di cedere 500 metri quadrati perché sorgesse una cancellata di fronte al Santo Uffizio, quando il Santo Padre seppe che questo turbava la mia coscienza di geloso custode dell'integrità territoriale dello Stato, che non può pensare se non ad accrescere questo territorio, giammai a diminuirlo, il Santo Padre andava ancora oltre i miei desideri, e poiché sarebbe stato un po' grottesco che la facciata di un edificio fosse stata posta a confine di uno Stato, rinunciava all'intero edificio e annessi e lo passava nel novero degli altri che godono soltanto dell'immunità diplomatica.
Dopo la morte del compianto Barone io sentii quasi come un avvertimento del destino. La voce dei negoziati era ormai di dominio pubblico in tutto il mondo. Bisognava affrettare i tempi.
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Talune residuali cellule massoniche, che io ho identificato in tutte le città dove hanno affiorato attraverso certe pubblicazioni di giornali, e simili manifestazioni più o meno vociferatorie, hanno cominciato col sorprendersi che i testi di questi protocolli recassero, a guisa di preambolo, l'invocazione alla SS. Trinità. Permettetemi che io vi erudisca; non c'è nulla di straordinario per cui si possa pensare che lo Stato, in qualche guisa, sia venuto meno a se stesso e alla sua dignità. Non vogliamo proprio risalire a Giustiniano perché dovremmo riportarci al 533, ma sta di fatto che anche nei pubblici trattati tra potenze laiche, quasi sempre fu premessa questa formula.
Gli esempi sovrabbondano.
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Le trattative sono durate trenta mesi. Vi ha avuto grandissima parte l'avv. Pacelli, il quale ha rivelato un animo di forte italiano e di fervente cattolico. L'avv. Pacelli, come lui stesso ha dichiarato, è stato ricevuto non meno di 150 volte dal Sommo Pontefice; il Trattato è stato redatto venti volte, prima di essere licenziato nella sua veste definitiva.
Voi conoscete l'insieme degli atti. Si tratta di un accordo politico, di una convenzione finanziaria e di un Concordato. Mi occuperò di ognuno di questi protocolli. Il più importante evidentemente è il Trattato. Con esso si sana la Questione Romana, anzi, come è detto testualmente, si risolve e si elimina irrevocabilmente; essa è finita, sepolta, non se ne parlerà più, e si crea la Città del Vaticano. Contropartita di questa creazione è da parte del Sommo Pontefice il riconoscimento esplicito e solenne del Regno d'Italia, sotto la Monarchia di Casa Savoia, con Roma Capitale dello Stato italiano.
Avvertite, dunque: c'è la Città del Vaticano, e poi c'è Roma. Dai tempi di Augusto bisogna arrivare al 1870 per trovare ancora una volta Roma capitale dell'Italia ; ma dal 1870 al 1929 c'era ancora una riserva, ancora un'ipoteca di natura morale. Questa ipoteca e questa riserva da parte della più alta autorità religiosa del mondo, scompaiono oggi. Roma è soltanto del Regno d'Italia e degli italiani.
Io spero che voi avvertirete l'enorme importanza di questo fatto. D'altra parte, a prescindere dalla constatazione che sul Vaticano non fu mai compiuto atto di sovranità italiana, nessuno, neanche il più fanatico dell'integrità territoriale, potrà sentirsi diminuito per i 44 ettari che formano la Città del Vaticano; quando, poi, togliete la Piazza San Pietro e la Chiesa vastissima che rimangono di uso promiscuo, la superficie di questa divina Città, di questo Stato, si riduce ancora: è, in ordine di grandezza, veramente irrilevante.
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Naturalmente questa Città del Vaticano è ancora uno Stato sui generis, per il fatto che è circondata da tutti i lati da un altro Stato, per il fatto che ha zone nel suo stesso territorio, di uso promiscuo collo Stato confinante e per altre peculiarità che formeranno la delizia dei commentatori tra qualche tempo.
Io prevedo un'altra abbondantissima letteratura sull'avvenuta soluzione della Questione Romana; ma l'importante è questo: primo, che malgrado certe riserve che avrete notato nelle lettere che ho letto, riserve iniziali, la soluzione è italiana, e nessun'altra potenza vi ha messo verbo. Di più, la Città del Vaticano si dichiara, e noi la dichiariamo perché il testo reca anche la firma del Governo italiano, territorio neutrale ed inviolabile. È evidente che noi saremo i necessari garanti di questa neutralità e di questa inviolabilità, in quanto che, nella remota ipotesi che qualcuno volesse ferirla, dovrebbe prima violare il nostro territorio.
Del resto, noi avremo tutto l'interesse che il Pontefice possa esercitare quella che nel Trattato è giustamente definita «la sua pastorale missione» in perfetta indipendenza di sostanza e di forma, tra la simpatia di tutto il popolo italiano. Finalmente, vi è un'altra condizione nel Trattato, sulla quale richiamo la vostra attenzione, ed è questa: che la Città del Vaticano si dichiara fin da questo momento, e noi vi abbiamo apposto la nostra firma, estranea a tutte le competizioni di ordine temporale che potessero sorgere tra gli Stati, e a tutti i congressi indetti per tale scopo, quindi non solo per i congressi straordinari, ma anche per i congressi ordinari quale è la Società delle Nazioni.
Anche le superstiti cellule, di cui parlavo poco fa, riconoscono che il Trattato è buono e salvaguarda in pieno l'integrità dello Stato. Non ha in sé pericoli. Pensate a quel che era lo Stato Pontificio - quando comprendeva la Romagna, l'Umbria, le Marche e il Lazio - e quando doveva fare una politica di pace e di guerra con i diversi Stati per sostenersi.
Oggi, giustamente, il Santo Padre può affermare che la migliore difesa della sua sovranità sta nella limitazione del territorio della Città del Vaticano. Era così poco ansioso di avere dei sudditi, forse pensando che il più tranquillo sovrano è quello che non ha sudditi, che ha pregato di andarsene tutti coloro che, durante secoli, si erano infiltrati nelle anfrattuesità del Vaticano. La cittadinanza del nuovo Stato è una cittadinanza un po' paradossale. Non si nasce cittadini, si diventa per un atto della propria volontà e si resta cittadini, finché si ha il domicilio stabile là dentro. Una volta che il domicilio stabile cessi, si appartiene ad un'altra nazionalità. D'altra parte, la limitazione numerica di questi cittadini è data dalla consistenza territoriale di questo Stato. Si può calcolare quanti uomini possono abitare su 44 ettari di terra! Tutte le preoccupazioni, dunque, sono completamente infondate.
Vengo alla convenzione finanziaria e al Concordato. Quando si è saputo che esisteva una convenzione finanziaria, anzitutto, per arrotondare le cifre, si è detto che si trattava dì due miliardi. Molto meno! Si tratta, infatti, di 750 milioni in contanti e di un miliardo di Consolidato, il quale però, non è piacevole il constatarlo, si può comperare oggi con 800 milioni.
Sono dunque 1550 milioni, ma di lire carta. Bisogna dividere per tre e sessantasei: sono 400 milioni di lire oro. Poco, quando voi pensate, e scommetto che non ve ne spaventate affatto, che noi abbiamo duecento miliardi di debiti. La cifra è una di quelle che fanno rabbrividire, ma noi rimandiamo i brividi a migliore stagione. Cosa sono 400 milioni di lire oro? Tuttavia la curiosità del pubblico si è manifestata: «Come farete a pagare? Soprattutto, come farete a trovare un miliardo di Consolidato?». Rispondo a questi interrogativi, che io riconosco legittimi. I provvedimenti che si stanno predisponendo presso il Ministero delle Finanze sono tali che si potrà far fronte agli impegni assunti senza aumentare il debito pubblico e senza ricorrere al mercato.
È a proposito del Concordato che la critica vociferatoria all'interno e all'estero ha puntato e aguzzato i suoi strali. Ha torto però, perché io dimostrerò che il Concordato concluso con la Santa Sede è il migliore dal punto di vista dello Stato. Ve lo dimostrerò, o signori, e soprattutto vorrei dimostrarlo a quelli che hanno palesato, nella fattispecie, una singolare ignoranza della situazione. Io paragonerò il nostro Concordato con i quattro Concordati stipulati dalla Santa Sede dopo la guerra, con la Lettonia, la quale è una repubblica baltica che ha soltanto il 23 per cento di cattolici; con la Lituania, altra repubblica che ha l'85 per cento di cattolici; con la Polonia che, su 30 milioni di abitanti, ha soltanto il 63 per cento di cattolici di rito latino e l'11 per cento di rito greco, e con la Baviera che è cattolica, ma che appartiene alla repubblica del Reich.
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Ma nel nostro vi è un'aggiunta, e su questa si sono sbizzarrite le fantasie: «In considerazione del carattere sacro della Città eterna, sede vescovile del Sommo Pontefice, centro del mondo cattolico e meta di pellegrinaggi, il Governo italiano avrà cura di impedire in Roma tutto ciò che possa essere in contrasto col detto carattere». Invece che «avrà cura» si voleva si dicesse: «assume impegno». Ho preferito la formula generica, perché, quando si prendono impegni, si firma una cambiale, e le cambiali bisogna pagarle.
Ma io trovo che è stupefacente lo stupore di coloro che si sono appuntati su questa seconda parte dell'articolo. Ma chi è quel barbaro che può negare il carattere sacro di Roma? Se voi togliete dalla storia del mondo la storia dell'Impero romano, non resta che poco. Se i Romani non avessero in ogni terra lasciato i loro monumenti dal Marocco ad Angora, la nuova capitale della giovane ed amica Turchia, che conserva ancora una lapide col testamento di Augusto, tutta la storia di Roma apparirebbe come una fantastica leggenda. Ma Roma è sacra, perché fu capitale dell'Impero e ci ha lasciato le norme del suo Diritto e le sue reliquie venerabili e memorabili che ancora ci commuovono quando balzano ad ogni momento dalla terra appena frugata. Ma poi è sacra ancora perché è stata la culla del cattolicismo. Tutti i poeti di tutti i tempi ed uomini di tutti i popoli hanno riconosciuto il carattere sacro di Roma!
Qualche volta è motivo di riflessione e di orgoglio pensare che in questo piccolo territorio, tra sette colli e un fiume, si è svolta tanta parte della storia del mondo! Roma ha un carattere sacro, anche perché qui fu portato il Fante Ignoto, simbolo di tutti i sacrifizi di quattro anni della nostra guerra vittoriosa, e ancora bisognerà ricordare che sul Campidoglio, sul colle sacro dell'umanità, c'è un'Ara che ricorda i caduti della nostra Rivoluzione!
Questo carattere sacro di Roma noi lo rispettiamo. Ma è ridicolo pensare, come fu detto, che si dovessero chiudere le Sinagoghe!
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Né bisogna pensare che Roma diventerà una città tetra, dove non ci si potrà più onestamente divertire. Intanto vi dichiaro che non mi dispiace che Roma abbia un suo carattere di gravità. Era quello che si rimproverava a Cromwell quando il puritanesimo lottava contro il realismo. Si rimproveravano i puritani di avere un atteggiamento grave. Lo avevano perché difendevano la vita dell'Inghilterra, perché ne difendevano il carattere, ne preparavano l'avvenire, sia pure attraverso terribili guerre civili, nelle quali perivano Re e Ministri.
Città seria, ma che saprà divertirsi. Del resto, durante il dominio dei Papi ci si divertiva benissimo a Roma.
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Si è detto: in questo Concordato voi fate, dal punto di vista degli obblighi militari, delle concessioni di privilegio agli ecclesiastici. Ebbene, queste concessioni figurano anche in tutti i Concordati precedenti, dai quali io, rappresentante di una Nazione prevalentemente, anzi totalmente cattolica, non potevo prescindere. L'articolo 5 del Concordato polacco è quasi letteralmente simile all'articolo 3 del Concordato italiano. Ma l'articolo 5 del Concordato lituano va molto più in là.
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Veniamo all'articolo 5. Vi si parla degli apostati o irretiti da censura. Su questo articolo c'è stata una discussione assai lunga. Intanto non avrà valore retrospettivo. Ce n'è un migliaio di questi individui che si trovano in tale situazione peculiare. Costoro rimarranno dove sono.
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Per quello che concerne l'articolo 8 si è parlato di Foro ecclesiastico. No, non esiste Foro ecclesiastico, esiste soltanto nello Stato italiano il Foro civile. L'articolo 8 del Concordato italiano è molto men grave dei corrispondenti articoli degli altri Concordati coi quali sto paragonando il nostro.
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Che cosa facciamo noi ? Comunichiamo l'avvenimento all'Ordinario diocesano, perché prenda le sue decisioni in ordine alla gerarchia ecclesiastica. Ma poi i casi sono due: o trattasi di un delitto comune, e allora l'ecclesiastico viene ridotto allo stato laicale e segue la sorte di tutti i condannati comuni; o è un delitto politico, e allora il prevenuto o il condannato avrà tutte le agevolazioni che abbiamo consentito a tutti coloro che sono rei dei delitti del genere.
Un giornalista straniero ha detto che con questo articolo l'Italia è alla merce del Vaticano e che nessuno, all'infuori degli ecclesiastici, potrà godere di simile privilegio. Sarà dunque necessario di dire che il Gran Maestro della massoneria Domizio Torrigiani, da quando fu colpito da incipiente cecità, fu tratto dal confino e messo in una clinica dell'Italia centrale ? Che meraviglia, allora, se domani un Cardinale, ipotesi che ritengo assolutamente assurda, o un Vescovo o un sacerdote condannato per delitto politico siano trattati con i riguardi che tutti i Regimi hanno per questo genere di reati ?
Si è parlato di diritto d'asilo. Se un delinquente fugge in una Chiesa, i Carabinieri gli correranno dietro e lo acciufferanno. D'altra parte è noto che i delinquenti hanno un sacro terrore di fuggire in Chiesa. Temono forse i fulmini della Divinità, oltre che le manette dei Carabinieri! È evidente che, salvo questi casi d'urgenza, la forza pubblica non ha nessun particolare interesse di entrare in Chiesa, se non vi sia chiamata.
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Tutto quello che concerne l'assistenza ai militari è già in atto. Le stesse clausole figurano nei Concordati polacco e lituano. Per quello che riguarda la scelta degli Arcivescovi e dei Vescovi, non abbiamo fatto che prendere le clausole dei Concordati precedenti. Per il giuramento abbiamo preso, come suol dirsi, la clausola della nazione più favorita, cioè la formula del giuramento polacco. Per tutto quello che concerne la nuova sistemazione degli enti e dei beni ecclesiastici, vi parlerà con la sua particolare competenza il collega Guardasigilli.
Adesso veniamo all'articolo 34, l'articolo del matrimonio. Voi sapete a che cosa era ridotto il matrimonio civile in questi ultimi tempi. Siamo noi Fascisti che gli abbiamo dato un po' di stile. Per i piccoli paesi era una cosa qualche volta assolutamente farsesca, con scarsissima dignità, con testimoni racimolati all'ultimo minuto.
Pareva che tutto lo Stato fosse oramai in questi articoli del Codice civile. Voi conoscete, del resto, quante discussioni sono state fatte in Italia su questo argomento. Orbene, onorevoli camerati, in quasi tutti i Paesi civili il matrimonio religioso ha gli effetti civili, in Austria il matrimonio religioso fra i cattolici è valido agli effetti civili senza bisogno di alcuna formalità, il matrimonio civile è riservato soltanto ai «Konfessionslos » o a sposi di culto diverso.
Non siamo dunque soli in questa determinazione di dare, sotto opportune cautele, la validità civile al matrimonio religioso. Molti hanno visto questo problema dal punto di vista metafisico; io lo vedo anche dal punto di vista della comodità. I Comuni in Italia sono 8000, le parrocchie 15.000; che cosa abbiamo fatto? Abbiamo dato al cattolico la possibilità , se lo vuole, di fare la stessa cosa nello stesso tempo e con lo stesso personaggio. Se ciò incoraggerà, insieme con la diminuita età, i matrimoni, e se da questi matrimoni nascerà un'abbondante prole, io ne sarò particolarmente felice. Veniamo all'insegnamento religioso, contemplato nell'art. 36 del nostro Concordato.
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Notate che ho respinto nella maniera più categorica la richiesta d'introdurre l'insegnamento religioso anche nelle Università. La Santa Sede si è convinta che sarebbe, allo stato degli atti, un grave errore.
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L'articolo 37 italiano, corrisponde (in senso più estensivo) all'articolo 7 paragrafo 2 del Concordato bavarese: «Agli scolari degli istituti elementari, medii e superiori, deve essere dato, d'accordo colle superiori autorità ecclesiastiche, modo opportuno e conveniente di adempiere i loro doveri religiosi».
Come vedete, anche per queste clausole nulla si può dire che possa essere interpretato come diminuzione della giurisdizione e sovranità dello Stato. Escluso dall'Università l'insegnamento religioso, resta da determinare come questo insegnamento, che è d'altra parte facoltativo, dovrà svolgersi nelle scuole medie. È evidente che non potrà svolgersi sotto la semplice specie catechistica. Bisognerà che si svolga sotto la specie morale e storica, perché deve essere attraente ed interessante, altrimenti potrebbe dare l'effetto contrario.
Sono arrivato a un altro punto importante del Concordato quello che concerne l'Azione Cattolica.
Intanto l'articolo 43 del nostro Concordato figura nel Concordato lèttone all'articolo 13 che dice: «La Repubblica di Lettonia non porrà ostacoli all'attività - controllata dall'Arcivescovo di Riga - delle Associazioni Cattoliche di Lettonia, le quali avranno gli stessi diritti che le altre Associazioni riconosciute dallo Stato».
L'articolo 25 del concordato lituano è invece più esplicito ancora e dice: «Lo Stato accorderà piena libertà d'organizzazione e di funzionamento alle Associazioni aventi scopi principalmente religiosi, facenti parte dell'Azione Cattolica e come tali dipendenti dall'Autorità dell'Ordinario».
Ciò precisato, non v'è dubbio che, dopo il Concordato del Laterano, non tutte le voci che si sono levate nel campo cattolico erano intonate. Taluni hanno cominciato a fare il processo al Risorgimento; altri ha trovato che la statua di Giordano Bruno a Roma è quasi offensiva. Bisogna che io dichiari che la statua di Giordano Bruno, malinconica come il destino di questo frate, resterà dove è. È vero che quando fu collocata in Campo di Fiori, ci furono delle proteste violentissime; perfino Ruggero Bonghi era contrario, e fu fischiato dagli studenti di Roma; ma ormai ho l'impressione che parrebbe di incrudelire contro questo filosofo, che se errò e persisté nell'errore, pagò. Naturalmente non è nemmeno da pensare che il monumento a Garibaldi sul Gianicolo possa avere un'ubicazione diversa. Nemmeno dal punto di vista del collo del cavallo. Credo che Garibaldi può guardare tranquillamente da quella parte, perché oggi il suo grande spirito è placato! Non solo resterà, ma nella stessa zona sorgerà, a cura del Regime Fascista, il monumento ad Anita Garibaldi.
Si è notato che taluni elementi cattolici, specialmente fra quelli che non hanno tagliato tutti i ponti con le ideologie del partito popolare, stavano intentando dei processi al Risorgimento. Si leggevano appelli di questo genere: moltiplichiamo le file, stringiamo i ranghi, serriamo le schiere, ecc., ecc. ; naturalmente, di fronte a questo frasario, si è tratti a domandarsi: ma che cosa succede ? È curioso che in tre mesi io ho sequestrato più giornali cattolici che nei sette anni precedenti! Era questo forse l'unico modo per ricondurli nell'intonazione giusta!
Non mi piacciono gli individui che hanno l'aria di sfondare energicamente delle porte che sono già state energicamente sfondate! Così taluni elementi avevano l'aria preoccupata, tragica, come per difendersi da pericoli che non esistono. Ragione per cui è opportuno, anche in questa sede, di far sapere che il Regime è vigilante, e che nulla gli sfugge. Nessuno creda che l'ultimo fogliuncolo che esca dall'ultima parrocchia non sia ad un certo momento conosciuto da Mussolini. Non permetteremo resurrezioni di partiti o di organizzazioni che abbiamo per sempre distrutti.
Ognuno si ricordi che il Regime Fascista, quando impegna una battaglia, la conduce a fondo e lascia dietro di sé il deserto. Né si pensi di negare il carattere morale dello Stato Fascista, perché io mi vergognerei di parlare da questa tribuna se non sentissi di rappresentare la forza morale e spirituale dello Stato. Che cosa sarebbe lo Stato se non avesse un suo spirito, una sua morale, che è quella che dà la forza alle sue leggi, e per la quale esso riesce a farsi ubbidire dai cittadini? Che cosa sarebbe lo Stato? Una cosa miserevole, davanti alla quale i cittadini avrebbero il diritto della rivolta o del disprezzo. Lo Stato Fascista rivendica in pieno il suo carattere di eticità: è Cattolico, ma è Fascista, anzi soprattutto, esclusivamente, essenzialmente Fascista. Il Cattolicismo lo integra, e noi lo dichiariamo apertamente, ma nessuno pensi, sotto la specie filosofica o metafisica, di cambiarci le carte in tavola.
Ognuno pensi che non ha di fronte a sé lo Stato agnostico demoliberale, una specie di materasso sul quale tutti passavano a vicenda; ma ha dinanzi a sé uno Stato che è conscio della sua missione e che rappresenta un popolo che cammina, uno Stato che trasforma questo popolo continuamente, anche nel suo aspetto fisico. A questo popolo lo Stato deve dire delle grandi parole, agitare delle grandi idee e dei grandi problemi, non fare soltanto dell'ordinaria amministrazione. Per questa anche dei piccoli Ministri dei piccoli tempi erano sufficienti.
Onorevoli camerati!
Voi avete inteso, e soprattutto deve avere inteso il popolo italiano, devono avere inteso i nostri Fascisti, i migliori dei nostri camerati, che costituiscono sempre la spina dorsale del Regime. Ho parlato netto e chiaro per il popolo italiano: credo che il popolo italiano mi intenderà. Con gli atti dell' 11 febbraio il Fascismo raccomanda il suo nome a' secoli che verranno. Quando, nel punto culminante delle trattative, Camillo Cavour, ansioso, raccomandava a Padre Passaglia: «portatemi il ramoscello d'olivo prima della Pasqua», egli sentiva che questa era la suprema esigenza della coscienza e del divenire della Rivoluzione nazionale.
Oggi, onorevoli camerati, noi possiamo portare questo ramoscello d'olivo sulla tomba del grande costruttore dell'unità italiana, perché soltanto oggi la sua speranza è realizzata, il suo voto è compiuto!