I° discorso da Presidente del Consiglio (16 novembre 1922)
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Mi onoro di annunziare alla Camera che Sua Maestà il Re, con decreto 31 scorso ottobre, ha accettato le dimissioni dell’onorevole avvocato Luigi Facta, deputato al Parlamento, dalla carica di presidente del consiglio dei ministri e quelle dei suoi colleghi ministri segretari di Stato, nonché quelle dei sottosegretari di Stato, e mi ha dato incarico di comporre il nuovo Ministero.
Signori, quello che io compio oggi, in questa Aula, è un atto di formale deferenza verso di voi e per il quale non vi chiedo nessun attestato di speciale riconoscenza.
Da molti, anzi da troppi anni, le crisi di Governo erano poste e risolte dalla Camera attraverso più o meno tortuose manovre ed agguati, tanto che una crisi veniva regolarmente qualificata come un assalto, ed il Ministero rappresentato da una traballante diligenza postale.
Ora è accaduto per la seconda volta, nel volgere di un decennio, che il popolo italiano - nella sua parte migliore - ha scavalcato un Ministero e si è dato un Governo al di fuori, al disopra e contro ogni designazione del Parlamento. Il decennio di cui vi parlo sta fra il maggio del 1915 e l'ottobre del 1922.
Lascio ai melanconici zelatori del supercostituzionalismo il compito di dissertare più o meno lamentosamente su ciò. Io affermo che la rivoluzione ha i suoi diritti. Aggiungo, perché ognuno lo sappia, che io sono qui per difendere e potenziare al massimo grado la rivoluzione delle «camicie nere», inserendola intimamente come forza di sviluppo, di progresso e di equilibrio nella storia della Nazione.
Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non ci abbandona dopo la vittoria. Con 300 mila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo.
Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto.
Gli avversari sono rimasti nei loro rifugi: ne sono tranquillamente usciti, ed hanno ottenuto la libera circolazione: del che approfittano già per risputare veleno e tendere agguati come a Carate, a Bergamo, a Udine, a Muggia.
Ho costituito un Governo di coalizione e non già coll'intento di avere una maggioranza parlamentare, della quale posso oggi fare benissimo a meno, ma per raccogliere in aiuto della Nazione boccheggiante quanti, al di sopra delle sfumature dei partiti, la stessa Nazione vogliono salvare.
Ringrazio dal profondo del cuore i miei collaboratori, ministri e sottosegretari: ringrazio i miei colleghi di Governo, che hanno voluto assumere con me le pesanti responsabilità di questa ora: e non posso non ricordare con simpatia l'atteggiamento delle masse lavoratrici italiane che hanno confortato il moto fascista colla loro attiva o passiva solidarietà.
Credo anche di interpretare il pensiero di tutta questa Assemblea e certamente della maggioranza del popolo italiano, tributando un caldo omaggio al Sovrano, il quale si è rifiutato ai tentativi inutilmente reazionari dell'ultima ora, ha evitato la guerra civile e permesso di immettere nelle stracche arterie dello Stato parlamentare la nuova impetuosa corrente fascista uscita dalla guerra ed esaltata dalla vittoria.
Prima di giungere a questo posto, da ogni parte ci chiedevano un programma. Non sono ahimè i programmi che difettano in Italia: sibbene gli nomini e la volontà di applicare i programmi. Tutti i problemi della vita italiana, tutti dico, sono già stati risolti sulla carta: ma è mancata la volontà di tradurli nei fatti. Il Governo rappresenta, oggi, questa ferma e decisa volontà.
La politica estera è quella che, specie in questo momento, più particolarmente ci occupa e preoccupa.
Ne parlo subito, perché credo, con quello che dirò, di dissipare molte apprensioni. Non tratterò tutti gli argomenti, perché, anche in questo campo, preferisco l'azione alle parole.
Gli orientamenti fondamentali della nostra politica estera sono i seguenti: i trattati di pace, buoni o cattivi che siano, una volta che sono stati firmati e ratificati, vanno eseguiti. Uno stato che si rispetti non può avere altra dottrina.
I Trattati nou sono eterni, non sono irreparabili: sono capitoli della storia, non epilogo della storia. Eseguirli significa provarli.
Se attraverso la esecuzione si appalesa il loro assurdo, ciò può costituire il fatto nuovo che apre la possibilità di un ulteriore esame delle rispettive posizioni. Come il Trattato di Rapallo, così gli accordi di Santa Margherita, che da quello derivano, vengono da me portati dinanzi al Parlamento.
Stabilito che, quando siano perfetti, cioè ratificati, i trattati debbono essere lealmente eseguiti, passo a stabilire un altro fondamento della nostra politica estera : cioè il ripudio di tutta la fumosa ideologia « ricostruzionistica ».
Noi ammettiamo che ci sia una specie di unità, o meglio, di interdipendenza della vita economica europea. Ammettiamo che si debba riedificare questa economia, ma escludiamo che i metodi fin qui adottati giovino allo scopo.
Valgono più, ai fini della ricostruzione economica europea, i Trattati di commercio a due, base delle più vaste relazioni economiche fra i popoli, che le macchinose e confuse conferenze plenarie, la cui lacrimevole istoria ognuno conosce. Per ciò che riguarda l'Italia, noi intendiamo di seguire una politica di dignità e di utilità nazionale.
Non possiamo permetterci il lusso di una politica di altruismo insensato o di dedizione completa ai disegni altrui. Do ut des.
L'Italia di oggi conta, e deve adeguatamente contare. Lo si incomincia a riconoscere anche oltre i confini. Non abbiamo il cattivo gusto di esagerare la nostra potenza, ma non vogliamo nemmeno, per eccessiva ed inutile modestia, diminuirla.
La mia formula è semplice: niente per niente. Chi vuole avere da noi prove concrete di amicizia, tali prove di concreta amicizia ci dia.
L'Italia fascista, come non intende stracciare i Trattati, così, per molte ragioni di ordine politico, economico e morale, non intende abbandonare gli alleati di guerra.
Roma sta in linea con Parigi e con Londra, ma l'Italia deve imporsi e deve porre agli alleati quel coraggioso e severo esame di coscienza, che essi non hanno affrontato dall'armistizio ad oggi.
Esiste ancora una Intesa nel senso sostanziale della parola? Quale è la posizione di questa Intesa di fronte alla Germania, di fronte alla Russia, di fronte ad una alleanza russo-tedesca? Qual'è la posizione dell'Italia nell'Intesa, dell'Italia che non soltanto per debolezze dei suoi Gverni ha perduto forti posizioni nell'Adriatico e nel Mediterraneo, mentre si ripongono in discussione taluni dei suoi diritti fondamentali; dell'Italia che non ha avuto colonie, né materie prime ed è schiacciata, letteralmente, dai debiti fatti per raggiungere la vittoria comune?
Mi propongo, nei colloqui che avrò coi primi ministri di Francia e di Inghilterra, di affrontare con tutta chiarezza, nella sua complessità, il problema dell'Intesa ed il problema conseguente della posizione dell'Italia in seno dell'Intesa.
Da questo esame due ipotesi scaturiranno: o l'Intesa, sanando le sue angustie interne, le sue contraddizioni, diventerà veramente un blocco omogeneo, equilibrato, egualitario di forze — con eguali diritti ed eguali doveri — oppure sarà suonata la sua ora e l'Italia, riprendendo la sua libertà di azione, provvederà lealmente con altra politica alla tutela dei suoi interessi.
Mi auguro che la prima eventualità si verifichi: anche in considerazione del ribollire di tutto il mondo orientale e della crescente intimità russo-turco-tedesca.
Ma perché ciò sia, è necessario uscire una buona volta dal terreno delle frasi convenzionali: è tempo, insomma, di uscire dal semplice terreno dello spediente diplomatico che si rinnova e si ripete ad ogni conferenza, per entrare in quello dei fatti storici, sul terreno, cioè, in cui è possibile determinare in un senso e nell'altro un corso degli avvenimenti.
Una politica estera come la nostra, una politica di utilità nazionale, una politica di rispetto ai Trattati, una politica di equa chiarificazione della posizione dell'Italia nell'Intesa, non può essere gabellata come una politica avventurosa o imperialista nel senso volgare della parola.
Noi vogliamo seguire una politica di pace: non però una politica di suicidio. A confondere i pessimisti, i quali attendevano risultati catastrofici dall'avvento del Fascismo al potere, basterà ricordare che i nostri rapporti sono assolutamente amichevoli con la Svizzera, ed un Trattato di commercio, che sta in cantiere, gioverà, quando sarà ultimato, a fortificarli; corretti con la Jugoslavia e con la Grecia, buoni con la Spagna, la Cecoslovacchia, la Polonia, la Rumenia, con tutti gli Stati baltici, dove l'Italia ha guadagnato in questi ultimi tempi grandissime simpatie e coi quali stiamo trattando per addivenire ad accordi commerciali; ed egualmente buoni con tutti gli altri Stati.
Per quello che riguarda l'Austria, l'Italia manterrà fede ai suoi impegni e non trascurerà di spiegare azione di ordine economico anche nei confronti dell'Ungheria e della Bulgaria.
Riteniamo che per quanto riguarda la Turchia, si debba a Losanna riconoscere quello che è ormai un fatto compiuto, con le necessarie garanzie per il traffico negli Stretti, per gli interessi europei e per quelli delle minoranze cristiane.
La situazione che si è determinata nei Balcani e nell'Islam va attentamente vigilata. Quando la Turchia abbia avuto quel che le spetta, non deve pretendere altro. Ad un dato momento bisogna avere il coraggio di dire alla Turchia: « sin qui ma non oltre ». A nessun costo.
Solo con un fermo linguaggio, tanto più fermo quanto più leale sarà stala la condotta degli alleati, si può evitare il pericolo di complicazioni balcaniche e quindi, necessariamente, europee.
Non dimentichiamo che ci sono 44 mila mussulmani in Rumenia, 600 mila in Bulgaria, 400 mila in Albania, un milione e mezso nella Jugoslavia: un mondo che la vittoria della Mezzaluna ha esaltato, almeno sotterraneamente.
Per quanto riguarda la Russia, l'Italia ritiene che sia giunta ormai l'ora di considerare nella loro attuale realtà i nostri rapporti con quello Stato, prescindendo dalle sue condizioni interne, nelle quali, come Governo, non vogliamo entrare, come non ammettiamo interventi estranei nelle cose nostre, e siamo quindi disposti ad esaminare la possibilità di una soluzione definitiva.
Circa la partecipazione della Russia a Losanna, l'Italia ha sostenuto la tesi più liberale e non dispera di farla trionfare, quantunque fino ad oggi la Russia sia stata invitata per discutere limitatamente alla questione degli Stretti.
I nostri rapporti con gli Stati Uniti sono ottimi e sarà mia cura di perfezionarli, soprattutto nel campo di una desiderabile intima collaborazione d'ordine economico.
Col Canada sta per essere firmato un Trattato di commercio. Cordiali sono i nostri rapporti con le Repubbliche del Centro e Sud America e specialmente col Brasile e con l'Argentina, dove vivono milioni d'Italiani, ai quali non devono essere negate le possibilità di partecipare alla vita locale, il che, valorizzandoli, non li allontanerà, ma li legherà più vivamente alla Madre Patria.
Quanto al problema economico finanziario, l'Italia sosterrà nel prossimo convegno di Bruxelles che debiti e riparazioni formano un binomio inscindibile. Per questa politica di dignità e di utilità nazionale occorrono alla Consulta organi centrali e periferici adeguati alle nuove necessità della coscienza nazionale e all'accresciuto prestigio dell'Italia nel mondo.
Le direttive di politica interna si riassumono in queste parole economia, lavoro, disciplina. Il problema finanziario è fondamentale: bisogna arrivare colla maggiore celerità possibile al pareggio del bilancio statale. Regime della lesina: utilizzazione intelligente delle spese: aiuto a tutte le forze produttive della Nazione: fine di tutto le residuali bardature di guerra.
SUlla situazione finanziaria, che, pur essendo grave, è suscettibile di rapido miglioramento, vi riferirà ampiamente il mio collega Tangorra in sede di richiesta dell'esercizio provvisorio. Chi dice lavoro, dice borghesia produttiva e classi lavoratrici delle città e dei campi. Non privilegi alla prima, non privilegi alle ultime, ma tutela di tutti gli interessi che si armonizzino con quelli della produzione e della Nazione.
Il proletariato che lavora, e della cui sorte ci preoccupiamo, ma senza colpevoli demagogiche indulgenze non ha nulla da temere e nulla da perdere, ma certamente tutto da guadagnare da una politica finanziaria che salvi il bilancio dello Stato ed eviti quella bancarotta che si farebbe sentire in disastroso modo specialmente sulle classi più umili della popolazione. La nostra politica emigratoria deve svincolarsi da un eccessivo paternalismo, ma il cittadino italiano che emigra sappia che sarà saldamente tutelato dai rappresentanti della Nazione all'estero.
L'aumento del prestigio di una Nazione nel mondo è proporzionato alla disciplina di cui dà prova all'interno. Non vi è dubbio che la situazione all'interno è migliorata, ma non ancora come vorrei.
Non intendo cullarmi nei facili ottimismi. Non amo Pangloss.
Le grandi città ed in genere tutte le città sono tranquille: gli episodi di violenza sono sporadici e periferici, ma dovranno finire.
I cittadini, a qualunque partito siano iscritti, potranno circolare: tutte le fedi religiose saranno rispettate, con particolare riguardo a quella dominante che è il Cattolicismo: le libertà statutarie non saranno vulnerate: la legge sarà fatta rispettare a qualunque costo.
Lo Stato è forte e dimostrerà la sua forza contro tutti, anche contro l'eventuale illegalismo fascista, poiché sarebbe un illegalismo incosciente ed impuro che non avrebbe più alcuna giustificazione.
Debbo però aggiungere che la quasi totalità dei fascisti ha aderito perfettamente al nuovo ordine di cose. Lo Stato non intende abdicare davanti a chicchessia.
Chiunque si erga contro lo Stato sarà punito. Questo esplicito richiamo va a tutti i cittadini, ed io so che deve suonare particolarmente gradito alle orecchie dei fascisti, i quali hanno lottato e vinto per avere uno Stato che si imponga a tutti, colla necessaria inesorabile energia.
Non bisogna dimenticare che, al di fuori delle minoranze che fanno della politica militante, ci sono quaranta milioni di ottimi italiani i quali lavorano, si riproducono, perpetuano gli strati profondi della razza, chiedono ed hanno il diritto di non essere gettati nel disordine cronico, preludio sicuro della generale rovina.
Poichè i sermoni - evidentemente - non bastano, lo Stato provvederà a selezionare e a perfezionate le forze armate che lo presidiano: lo Stato fascista costituirà una polizia unica, perfettamente attrezzata, di grande mobilità e di elevato spirito morale; mentre Esercito e Marina gloriosissimi e cari ad ogni italiano - sottratti alle mutazioni della politica parlamentare, riorganizzati e potenziati, rappresentano la riserva suprema della Nazione all'interno ed all'estero.
Signori! Da ulteriori comunicazioni apprenderete il programma fascista, nei suoi dettagli e per ogni singolo dicastero. Io non voglio, finchè mi sarà possibile, governare contro la Camera: ma la Camera deve sentire la sua particolare posizione che la rende passibile di scioglimento fra due giorni o fra due anni.
Chiediamo i pieni poteri perché vogliamo assumere le piene responsabilità. Senza i pieni poteri voi sapete benissimo che non si farebbe una lira - dico una lira - di economia. Con ciò non intendiamo escludere la possibilità di volonterose collaborazioni che accetteremo cordialmente, partano esse da deputati, da senatori o da singoli cittadini competenti. Abbiamo ognuno di noi il senso religioso del nostro difficile compito. Il paese ci conforta ed attende.
Non gli daremo ulteriori parole, ma fatti. Prendiamo impegno formale e solenne di risanare il bilancio e lo risaneremo. Vogliamo fare una politica estera di pace, ma nel contempo di dignità e di fermezza: e la faremo. Ci siamo proposti di dare una disciplina alla Nazione, e la daremo. Nessuno degli avversari di ieri, di oggi, di domani si illuda sulla brevità del nostro passaggio al potere.
Illusione puerile e stolta come quella di ieri. Il nostro Governo ha basi formidabili nella coscienza della Nazione ed è sostenuto dalle migliori, dalle più fresche generazioni italiane.
Non v'è dubbio che in questi ultimi giorni un passo gigantesco verso la unificazione degli spiriti è stato compiuto. La patria italiana si è ritrovata ancora una volta, dal nord al sud, dal continente alle isole generose, che non saranno più dimenticate, dalle metropoli alle colonie operose del Mediterraneo e dell'Adriatico. Non gettate, o signori, altre chiacchiere vane alla Nazione. Cinquantadue iscritti a parlare sulle mie comunicazioni, sono troppi.
Lavoriamo piuttosto con cuore puro e con mente alacre per assicurare la prosperità e la grandezza della Patria.
Così Iddio mi assista nel condurre a termine vittorioso la mia ardua fatica.
Signori, quello che io compio oggi, in questa Aula, è un atto di formale deferenza verso di voi e per il quale non vi chiedo nessun attestato di speciale riconoscenza.
Da molti, anzi da troppi anni, le crisi di Governo erano poste e risolte dalla Camera attraverso più o meno tortuose manovre ed agguati, tanto che una crisi veniva regolarmente qualificata come un assalto, ed il Ministero rappresentato da una traballante diligenza postale.
Ora è accaduto per la seconda volta, nel volgere di un decennio, che il popolo italiano - nella sua parte migliore - ha scavalcato un Ministero e si è dato un Governo al di fuori, al disopra e contro ogni designazione del Parlamento. Il decennio di cui vi parlo sta fra il maggio del 1915 e l'ottobre del 1922.
Lascio ai melanconici zelatori del supercostituzionalismo il compito di dissertare più o meno lamentosamente su ciò. Io affermo che la rivoluzione ha i suoi diritti. Aggiungo, perché ognuno lo sappia, che io sono qui per difendere e potenziare al massimo grado la rivoluzione delle «camicie nere», inserendola intimamente come forza di sviluppo, di progresso e di equilibrio nella storia della Nazione.
Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non ci abbandona dopo la vittoria. Con 300 mila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo.
Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto.
Gli avversari sono rimasti nei loro rifugi: ne sono tranquillamente usciti, ed hanno ottenuto la libera circolazione: del che approfittano già per risputare veleno e tendere agguati come a Carate, a Bergamo, a Udine, a Muggia.
Ho costituito un Governo di coalizione e non già coll'intento di avere una maggioranza parlamentare, della quale posso oggi fare benissimo a meno, ma per raccogliere in aiuto della Nazione boccheggiante quanti, al di sopra delle sfumature dei partiti, la stessa Nazione vogliono salvare.
Ringrazio dal profondo del cuore i miei collaboratori, ministri e sottosegretari: ringrazio i miei colleghi di Governo, che hanno voluto assumere con me le pesanti responsabilità di questa ora: e non posso non ricordare con simpatia l'atteggiamento delle masse lavoratrici italiane che hanno confortato il moto fascista colla loro attiva o passiva solidarietà.
Credo anche di interpretare il pensiero di tutta questa Assemblea e certamente della maggioranza del popolo italiano, tributando un caldo omaggio al Sovrano, il quale si è rifiutato ai tentativi inutilmente reazionari dell'ultima ora, ha evitato la guerra civile e permesso di immettere nelle stracche arterie dello Stato parlamentare la nuova impetuosa corrente fascista uscita dalla guerra ed esaltata dalla vittoria.
Prima di giungere a questo posto, da ogni parte ci chiedevano un programma. Non sono ahimè i programmi che difettano in Italia: sibbene gli nomini e la volontà di applicare i programmi. Tutti i problemi della vita italiana, tutti dico, sono già stati risolti sulla carta: ma è mancata la volontà di tradurli nei fatti. Il Governo rappresenta, oggi, questa ferma e decisa volontà.
La politica estera è quella che, specie in questo momento, più particolarmente ci occupa e preoccupa.
Ne parlo subito, perché credo, con quello che dirò, di dissipare molte apprensioni. Non tratterò tutti gli argomenti, perché, anche in questo campo, preferisco l'azione alle parole.
Gli orientamenti fondamentali della nostra politica estera sono i seguenti: i trattati di pace, buoni o cattivi che siano, una volta che sono stati firmati e ratificati, vanno eseguiti. Uno stato che si rispetti non può avere altra dottrina.
I Trattati nou sono eterni, non sono irreparabili: sono capitoli della storia, non epilogo della storia. Eseguirli significa provarli.
Se attraverso la esecuzione si appalesa il loro assurdo, ciò può costituire il fatto nuovo che apre la possibilità di un ulteriore esame delle rispettive posizioni. Come il Trattato di Rapallo, così gli accordi di Santa Margherita, che da quello derivano, vengono da me portati dinanzi al Parlamento.
Stabilito che, quando siano perfetti, cioè ratificati, i trattati debbono essere lealmente eseguiti, passo a stabilire un altro fondamento della nostra politica estera : cioè il ripudio di tutta la fumosa ideologia « ricostruzionistica ».
Noi ammettiamo che ci sia una specie di unità, o meglio, di interdipendenza della vita economica europea. Ammettiamo che si debba riedificare questa economia, ma escludiamo che i metodi fin qui adottati giovino allo scopo.
Valgono più, ai fini della ricostruzione economica europea, i Trattati di commercio a due, base delle più vaste relazioni economiche fra i popoli, che le macchinose e confuse conferenze plenarie, la cui lacrimevole istoria ognuno conosce. Per ciò che riguarda l'Italia, noi intendiamo di seguire una politica di dignità e di utilità nazionale.
Non possiamo permetterci il lusso di una politica di altruismo insensato o di dedizione completa ai disegni altrui. Do ut des.
L'Italia di oggi conta, e deve adeguatamente contare. Lo si incomincia a riconoscere anche oltre i confini. Non abbiamo il cattivo gusto di esagerare la nostra potenza, ma non vogliamo nemmeno, per eccessiva ed inutile modestia, diminuirla.
La mia formula è semplice: niente per niente. Chi vuole avere da noi prove concrete di amicizia, tali prove di concreta amicizia ci dia.
L'Italia fascista, come non intende stracciare i Trattati, così, per molte ragioni di ordine politico, economico e morale, non intende abbandonare gli alleati di guerra.
Roma sta in linea con Parigi e con Londra, ma l'Italia deve imporsi e deve porre agli alleati quel coraggioso e severo esame di coscienza, che essi non hanno affrontato dall'armistizio ad oggi.
Esiste ancora una Intesa nel senso sostanziale della parola? Quale è la posizione di questa Intesa di fronte alla Germania, di fronte alla Russia, di fronte ad una alleanza russo-tedesca? Qual'è la posizione dell'Italia nell'Intesa, dell'Italia che non soltanto per debolezze dei suoi Gverni ha perduto forti posizioni nell'Adriatico e nel Mediterraneo, mentre si ripongono in discussione taluni dei suoi diritti fondamentali; dell'Italia che non ha avuto colonie, né materie prime ed è schiacciata, letteralmente, dai debiti fatti per raggiungere la vittoria comune?
Mi propongo, nei colloqui che avrò coi primi ministri di Francia e di Inghilterra, di affrontare con tutta chiarezza, nella sua complessità, il problema dell'Intesa ed il problema conseguente della posizione dell'Italia in seno dell'Intesa.
Da questo esame due ipotesi scaturiranno: o l'Intesa, sanando le sue angustie interne, le sue contraddizioni, diventerà veramente un blocco omogeneo, equilibrato, egualitario di forze — con eguali diritti ed eguali doveri — oppure sarà suonata la sua ora e l'Italia, riprendendo la sua libertà di azione, provvederà lealmente con altra politica alla tutela dei suoi interessi.
Mi auguro che la prima eventualità si verifichi: anche in considerazione del ribollire di tutto il mondo orientale e della crescente intimità russo-turco-tedesca.
Ma perché ciò sia, è necessario uscire una buona volta dal terreno delle frasi convenzionali: è tempo, insomma, di uscire dal semplice terreno dello spediente diplomatico che si rinnova e si ripete ad ogni conferenza, per entrare in quello dei fatti storici, sul terreno, cioè, in cui è possibile determinare in un senso e nell'altro un corso degli avvenimenti.
Una politica estera come la nostra, una politica di utilità nazionale, una politica di rispetto ai Trattati, una politica di equa chiarificazione della posizione dell'Italia nell'Intesa, non può essere gabellata come una politica avventurosa o imperialista nel senso volgare della parola.
Noi vogliamo seguire una politica di pace: non però una politica di suicidio. A confondere i pessimisti, i quali attendevano risultati catastrofici dall'avvento del Fascismo al potere, basterà ricordare che i nostri rapporti sono assolutamente amichevoli con la Svizzera, ed un Trattato di commercio, che sta in cantiere, gioverà, quando sarà ultimato, a fortificarli; corretti con la Jugoslavia e con la Grecia, buoni con la Spagna, la Cecoslovacchia, la Polonia, la Rumenia, con tutti gli Stati baltici, dove l'Italia ha guadagnato in questi ultimi tempi grandissime simpatie e coi quali stiamo trattando per addivenire ad accordi commerciali; ed egualmente buoni con tutti gli altri Stati.
Per quello che riguarda l'Austria, l'Italia manterrà fede ai suoi impegni e non trascurerà di spiegare azione di ordine economico anche nei confronti dell'Ungheria e della Bulgaria.
Riteniamo che per quanto riguarda la Turchia, si debba a Losanna riconoscere quello che è ormai un fatto compiuto, con le necessarie garanzie per il traffico negli Stretti, per gli interessi europei e per quelli delle minoranze cristiane.
La situazione che si è determinata nei Balcani e nell'Islam va attentamente vigilata. Quando la Turchia abbia avuto quel che le spetta, non deve pretendere altro. Ad un dato momento bisogna avere il coraggio di dire alla Turchia: « sin qui ma non oltre ». A nessun costo.
Solo con un fermo linguaggio, tanto più fermo quanto più leale sarà stala la condotta degli alleati, si può evitare il pericolo di complicazioni balcaniche e quindi, necessariamente, europee.
Non dimentichiamo che ci sono 44 mila mussulmani in Rumenia, 600 mila in Bulgaria, 400 mila in Albania, un milione e mezso nella Jugoslavia: un mondo che la vittoria della Mezzaluna ha esaltato, almeno sotterraneamente.
Per quanto riguarda la Russia, l'Italia ritiene che sia giunta ormai l'ora di considerare nella loro attuale realtà i nostri rapporti con quello Stato, prescindendo dalle sue condizioni interne, nelle quali, come Governo, non vogliamo entrare, come non ammettiamo interventi estranei nelle cose nostre, e siamo quindi disposti ad esaminare la possibilità di una soluzione definitiva.
Circa la partecipazione della Russia a Losanna, l'Italia ha sostenuto la tesi più liberale e non dispera di farla trionfare, quantunque fino ad oggi la Russia sia stata invitata per discutere limitatamente alla questione degli Stretti.
I nostri rapporti con gli Stati Uniti sono ottimi e sarà mia cura di perfezionarli, soprattutto nel campo di una desiderabile intima collaborazione d'ordine economico.
Col Canada sta per essere firmato un Trattato di commercio. Cordiali sono i nostri rapporti con le Repubbliche del Centro e Sud America e specialmente col Brasile e con l'Argentina, dove vivono milioni d'Italiani, ai quali non devono essere negate le possibilità di partecipare alla vita locale, il che, valorizzandoli, non li allontanerà, ma li legherà più vivamente alla Madre Patria.
Quanto al problema economico finanziario, l'Italia sosterrà nel prossimo convegno di Bruxelles che debiti e riparazioni formano un binomio inscindibile. Per questa politica di dignità e di utilità nazionale occorrono alla Consulta organi centrali e periferici adeguati alle nuove necessità della coscienza nazionale e all'accresciuto prestigio dell'Italia nel mondo.
Le direttive di politica interna si riassumono in queste parole economia, lavoro, disciplina. Il problema finanziario è fondamentale: bisogna arrivare colla maggiore celerità possibile al pareggio del bilancio statale. Regime della lesina: utilizzazione intelligente delle spese: aiuto a tutte le forze produttive della Nazione: fine di tutto le residuali bardature di guerra.
SUlla situazione finanziaria, che, pur essendo grave, è suscettibile di rapido miglioramento, vi riferirà ampiamente il mio collega Tangorra in sede di richiesta dell'esercizio provvisorio. Chi dice lavoro, dice borghesia produttiva e classi lavoratrici delle città e dei campi. Non privilegi alla prima, non privilegi alle ultime, ma tutela di tutti gli interessi che si armonizzino con quelli della produzione e della Nazione.
Il proletariato che lavora, e della cui sorte ci preoccupiamo, ma senza colpevoli demagogiche indulgenze non ha nulla da temere e nulla da perdere, ma certamente tutto da guadagnare da una politica finanziaria che salvi il bilancio dello Stato ed eviti quella bancarotta che si farebbe sentire in disastroso modo specialmente sulle classi più umili della popolazione. La nostra politica emigratoria deve svincolarsi da un eccessivo paternalismo, ma il cittadino italiano che emigra sappia che sarà saldamente tutelato dai rappresentanti della Nazione all'estero.
L'aumento del prestigio di una Nazione nel mondo è proporzionato alla disciplina di cui dà prova all'interno. Non vi è dubbio che la situazione all'interno è migliorata, ma non ancora come vorrei.
Non intendo cullarmi nei facili ottimismi. Non amo Pangloss.
Le grandi città ed in genere tutte le città sono tranquille: gli episodi di violenza sono sporadici e periferici, ma dovranno finire.
I cittadini, a qualunque partito siano iscritti, potranno circolare: tutte le fedi religiose saranno rispettate, con particolare riguardo a quella dominante che è il Cattolicismo: le libertà statutarie non saranno vulnerate: la legge sarà fatta rispettare a qualunque costo.
Lo Stato è forte e dimostrerà la sua forza contro tutti, anche contro l'eventuale illegalismo fascista, poiché sarebbe un illegalismo incosciente ed impuro che non avrebbe più alcuna giustificazione.
Debbo però aggiungere che la quasi totalità dei fascisti ha aderito perfettamente al nuovo ordine di cose. Lo Stato non intende abdicare davanti a chicchessia.
Chiunque si erga contro lo Stato sarà punito. Questo esplicito richiamo va a tutti i cittadini, ed io so che deve suonare particolarmente gradito alle orecchie dei fascisti, i quali hanno lottato e vinto per avere uno Stato che si imponga a tutti, colla necessaria inesorabile energia.
Non bisogna dimenticare che, al di fuori delle minoranze che fanno della politica militante, ci sono quaranta milioni di ottimi italiani i quali lavorano, si riproducono, perpetuano gli strati profondi della razza, chiedono ed hanno il diritto di non essere gettati nel disordine cronico, preludio sicuro della generale rovina.
Poichè i sermoni - evidentemente - non bastano, lo Stato provvederà a selezionare e a perfezionate le forze armate che lo presidiano: lo Stato fascista costituirà una polizia unica, perfettamente attrezzata, di grande mobilità e di elevato spirito morale; mentre Esercito e Marina gloriosissimi e cari ad ogni italiano - sottratti alle mutazioni della politica parlamentare, riorganizzati e potenziati, rappresentano la riserva suprema della Nazione all'interno ed all'estero.
Signori! Da ulteriori comunicazioni apprenderete il programma fascista, nei suoi dettagli e per ogni singolo dicastero. Io non voglio, finchè mi sarà possibile, governare contro la Camera: ma la Camera deve sentire la sua particolare posizione che la rende passibile di scioglimento fra due giorni o fra due anni.
Chiediamo i pieni poteri perché vogliamo assumere le piene responsabilità. Senza i pieni poteri voi sapete benissimo che non si farebbe una lira - dico una lira - di economia. Con ciò non intendiamo escludere la possibilità di volonterose collaborazioni che accetteremo cordialmente, partano esse da deputati, da senatori o da singoli cittadini competenti. Abbiamo ognuno di noi il senso religioso del nostro difficile compito. Il paese ci conforta ed attende.
Non gli daremo ulteriori parole, ma fatti. Prendiamo impegno formale e solenne di risanare il bilancio e lo risaneremo. Vogliamo fare una politica estera di pace, ma nel contempo di dignità e di fermezza: e la faremo. Ci siamo proposti di dare una disciplina alla Nazione, e la daremo. Nessuno degli avversari di ieri, di oggi, di domani si illuda sulla brevità del nostro passaggio al potere.
Illusione puerile e stolta come quella di ieri. Il nostro Governo ha basi formidabili nella coscienza della Nazione ed è sostenuto dalle migliori, dalle più fresche generazioni italiane.
Non v'è dubbio che in questi ultimi giorni un passo gigantesco verso la unificazione degli spiriti è stato compiuto. La patria italiana si è ritrovata ancora una volta, dal nord al sud, dal continente alle isole generose, che non saranno più dimenticate, dalle metropoli alle colonie operose del Mediterraneo e dell'Adriatico. Non gettate, o signori, altre chiacchiere vane alla Nazione. Cinquantadue iscritti a parlare sulle mie comunicazioni, sono troppi.
Lavoriamo piuttosto con cuore puro e con mente alacre per assicurare la prosperità e la grandezza della Patria.
Così Iddio mi assista nel condurre a termine vittorioso la mia ardua fatica.