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Torino: Casa del Littorio (ora Palazzo Campana)

Anno di costruzione 1675/Metà XVII secolo
Progetto Non reperito. Ristrutturazione del 1855: Architetto Alessandro Mazzucchetti
Ubicazione Via Carlo Alberto, 10 – Torino
Fino al 1801 Sede della congregazione dei Padri Filippini
Dal 1801 al 1814 Caserma
Dal 1814 al 1855 Sede della congregazione dei Padri Filippini
Dal 1885 al 1865 Sede Ministero dei Lavori Pubblici e delle Poste centrali
Dal 1865 al 1929 Sede del Genio Civile
Dal 1929 al 1943 Casa  Littoria (Sede della Federazione provinciale del Partito Fascista)
Dal 1943 al 1945 Casa  Littoria (Sede del Partito Fascista Repubblicano)
Dal 1945 Palazzo Campana (Plesso Universitario)


Costruito tra il 1675 e la metà del 1700, il palazzo era la sede della congregazione dei Padri Filippini. Nel 1801, sotto il governo napoleonico la congregazione venne soppressa e la struttura fu adibita a caserma, ma nel 1814 con la Restaurazione  la proprietà tornò ai Filippini.
Nel 1855, con la definitiva soppressione dell’ordine, l’edificio fu ristrutturato dall’architetto Alessandro Mazzucchetti e ospitò la sede del Ministero dei Lavori pubblici  – fino al 1865 quando, a seguito del trasferimento della capitale a Firenze, divenne la sede del Genio civile – e delle Poste Centrali.
Non è improbabile che proprio la presenza della Posta centrale (dove si recò al suo arrivo per ritirare la corrispondenza) abbia guidato Friedrich Nietzsche nella scelta della sua residenza torinese, la camera d’affitto nell’alloggio in via Carlo Alberto 6. Il filosofo vi abitò in due periodi tra il 21 aprile 1888 e il 5 gennaio 1889. Lo ricorda una lapide apposta nel 1944 (via Carlo Alberto, all’angolo con la piazza omonima) unica rimasta tra quelle collocate durante la R.S.I., recante nella data ancora l’indicazione dell’anno XXII dell’era fascista.
Successivamente il palazzo passò in proprietà al Municipio e sotto il fascismo, a partire dal 1929, divenne la Casa Littoria che ospitò la sede della Federazione provinciale del Partito Nazionale Fascista. Il progetto della ricostruzione è descritto da Maria Grazia Daprà Conti: “La Casa Littoria era fruita, nel suo ruolo burocratico, dall’unico ingresso monumentale di via Carlo Alberto e “parlava” al popolo adunato nella piazza, nelle scadenze predeterminate dal calendario fascista. Tre elementi simbolici scandivano questo percorso ideale. Una grande scritta, le cui tracce sono tuttora decifrabili sotto l’intonaco, sormontava il portale d’ingresso. A sinistra del vestibolo era stato inserito il “sacrario” […] al termine del corridoio del primo piano era stato posto un balcone marmoreo da cui l’oratore designato avrebbe arringato la folla“. Con il consolidarsi del regime la Casa Littoria si arricchì di funzioni politico amministrative, accogliendo gli organi dirigenti delle varie articolazioni della Federazione del Partito fascista. L’11 luglio 1943, il segretario Federale del P.N.F. torinese, Antonio Bonino vi tenne l’ultima manifestazione ufficiale, con un comizio per incitare alla resistenza contro gli alleati ormai sbarcati in Sicilia. La mattina del 26 luglio il palazzo venne preso d’assalto ed incendiato da gruppi di manifestanti che percorrevano il centro cittadino. Dopo l’8 settembre 1943 il palazzo ritornò ad essere la sede del fascismo torinese, rinato come Partito fascista repubblicano, costituitosi nella sede della Gil di piazza Bernini tra il 13 e il 16 settembre, con a capo un triumvirato formato dal vecchio squadrista Domenico Mittica, da Luigi Riva e da Giuseppe Solaro, lo stesso Solaro, nominato dopo poco commissario Federale, presiedette l’ultima seduta del P.F.R. il 14 aprile 1945; il 23 aprile, pochi giorni prima della sua cattura ed esecuzione, era stato nominato ispettore delle Brigate nere e sostituito da Mario Pavia nella carica di Federale. Risalgono ai venti mesi del fascismo repubblicano le due celle ricavate nei sotterranei, prospicienti un lungo corridoio che dà accesso anche ad un ampio rifugio antiaereo, tutt’oggi esistente.
Dopo la guerra venne ribattezzato Palazzo Campana prendendo il nome della formazione partigiana che l’occupò il 28 aprile 1945 dopo che i fascisti lo avevano abbandonato. Formazione di “Giustizia e libertà” che aveva assunto il nome di battaglia del comandante partigiano Felice Cordero di Pamparato, catturato dai fascisti nell’agosto 1944 ed impiccato a Giaveno con tre compagni.
Destinato dal 1945 a sede universitaria, il 27 novembre 1967 (quando era sede delle facoltà umanistiche) fu occupato dagli studenti segnando l’inizio del ’68 a Torino. Dopo il trasferimento delle facoltà umanistiche a Palazzo Nuovo, ospitò gli studenti del corso di laurea in matematica e successivamente di Scienze Naturali.

 


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Pagina redatta il 15 gennaio 2018

I ribelli siamo noi

I RIBELLI SIAMO NOI

Dopo la fucilazione delle Ausiliarie a Nichelino, prigioniera dei partigiani resta la più giovane, Marilena Grill, di 16 anni, che frequenta il secondo anno al liceo D’Azeglio ed è addetta all’Ufficio Ricerche Dispersi. Tra i partigiani che l’hanno prelevata a casa sua vi è un suo compagno di scuola che l’ha rassicurata. Marilena è  orfana di padre, di religione valdese, studentessa di ottimo profitto, che dal luglio del ’44 ha “dato una mano” al Posto di Ristoro per militari alla Stazione di Porta Nuova, sa di non avere niente di cui vergognarsi o per cui possa essere incolpata, vincendo  le resistenze della madre, più diffidente,  li ha seguiti . Prima, però, ha chiesto  di  indossare la sua divisa di Ausiliaria. Così con la sua divisa è stata rinchiusa alla Caserma Valdocco dal giorno 28.[1] Quando viene condotta al Rondò d’la Forca per essere fucilata, insieme ad un altra ausiliaria, Ernesta Raviola, ed ad altre due donne non identificate, il comandante della 105a Brigata Pisacane, Alberto Polidori, incaricato dell’esecuzione, si rifiuta di ordinare il fuoco. Prende il suo posto “Pierin d’la Fisa”, Piero Sasso, comandante comunista della 18a Brigata di Corio, che spara anche la prima raffica.[1]

Tra i “giustiziati” dai partigiani vi sono molte donne: sulla sorte di alcune di loro testimonierà un vigile del fuoco torinese che ha assistito, con sgomento, fra il 25 aprile ed il 1° maggio, a molte uccisioni. È stato anche testimone di un processo, in un cortile, ad un gruppo di donne colpevoli di aver lavorato, per mantenere la famiglia, alle mense tedesche di via Verdi. Interrogate e lasciate libere con le figlie, che erano venute ad attenderle per riportarle a casa, nonostante l’assoluzione, vengono rapate a zero e caricate su un camion. Verranno trovate uccise nei pressi del Rondò d’la Forca ad opera di “sconosciuti”, probabilmente gli stessi che durante il processo ne chiedevano la condanna a morte.[1] È credibile che il “processo” ed il seguito, siano riferibili proprio alla uccisione di Marilena Grill (anche lei forse processata e non condannata per la giovane età) di Ernesta Raviola e di due cuoche che prestavano servizio alla G.N.R..

Ernesta Raviola, vent’anni, è figlia di Alberto, un operaio con una storia politica travagliata .E’ stato sottoposto, fino al 1925, a vigilanza speciale dal Regime in quanto comunista poi aderisce al fascismo, e, durante la RSI, fa parte della Brigata Nera “Ather Capelli”. Arrestato dopo il 25 aprile, verrà internato, per alcuni mesi, a Laterina. Processato  sarà prima condannato  all’ergastolo , e successivamente amnistiato. Quando rientrerà a Torino, verrà a conoscenza della morte della figlia,  allora aderisce al PCI , diventando  capo-cellula della fabbrica in cui lavora,  allo scopo di scoprire gli assassini della figlia e denunciarli . Il 23 dicembre del ‘47, attratto in un tranello con una telefonata che gli promette notizie sulla figlia, verrà assassinato. A due anni dopo la fine della guerra!. [1]


[1] Testimonianza di Rosilda Fanolla il 28-9-99, vedi anche don Marabotto, op. cit.

Una giovanissima Ausiliaria, la quindicenne Rosilda Fanolla, verso le 8 del mattino, mentre è in attesa del tram numero 21 in corso Casale, per recarsi alla messa di trigesima del padre Silvio, caduto in un agguato partigiano a Varese Ligure in provincia di La Spezia, viene rapita da tre partigiani in auto e condotta presso la Brigata autonoma “De Vitis” comandata da Nicoletta, nella zona di Giaveno. Verrà liberata dopo 42 giorni di prigionia e di trattative condotte da Solaro, per l’intervento di Paolo Zerbino che farà liberare in cambio il partigiano “Boccastorta”, non essendo a conoscenza che lo stesso, era uno dei rapitori della Fanolla, in seguito catturato


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Marilena Grill – La Storia

“Le ragazze che a centinaia chiedono di arruolarsi sentono più degli uomini, la vergogna per la fuga dei nostri soldati di fronte al nemico in Sicilia. Esse amano la patria e non vogliono che il mondo rida di noi”

(Piera Gatteschi Fondelli, poi Generale S.A.F., gennaio 1944)

 

Marilena Grill è nata a Torino il 26 settembre del 1928 orfana di padre da quando aveva quattro anni, è sempre vissuta nel capoluogo piemontese insieme alla madre, in un appartamento al n. 25 di Corso Oporto (l’attuale Corso Matteotti). Di fede valdese, con un carattere solare, ha fin da giovanissima maturato uno spiccato senso ideale della Patria, che la porterà nel 1944 ad arruolarsi nel S.A.F. (Servizio Ausiliario Femminile) della Repubblica Sociale Italiana.

Non si conosce con esattezza la data del suo ingresso nelle servizio ausiliario (qualcuno lo fa risalire al luglio del 1944), ma comunque una volta irreggimentata nel corpo viene assegnata alla caserma di Corso Valdocco a Torino, dove svolge servizio nell’’Ufficio Assistenziale Ricerche Dispersi e nel posto di ristoro di porta nuova. Compiti assistenziali e di ricerca, un servizio disarmato, senza incarichi di rilevanza strategica e senza nessun coinvolgimento politico. Marilena ha solo un grande e profondo senso del dovere verso la Patria, che si evince in tutta la sua purezza giovanile nelle parole che nel 1944 disse alla sua commilitona Rosilda Fanolla (1): “Vedi questa lapide con i nomi degli studenti caduti in guerra? Al più finirò col mio nome in questa fila e sarebbe una grande soddisfazione averlo fatto per l’Italia“.

Ricorda l’allora Comandante Provinciale del S.A.F. a Torino, Anna Maria Badia, in una sua testimonianza (2) che all’entrata in vigore del decreto che istituiva il corpo era previsto che il personale femminile che già prestava servizio volontario presso i reparti militari poteva essere arruolato anche se inferiore ai 18 anni di età. E che Marilena (allora sedicenne) potè essere inquadrata nel S.A.F, dato che, dopo aver adempiuto ai suoi doveri scolastici, nel pomeriggio già da qualche mese svolgeva opera di volontariato presso il posto di ristoro per le truppe di passaggio nella stazione di Porta Nuova e, a volte, in altri uffici di assistenza.

Studentessa-militare, Marilena frequentava il Liceo Massimo D’Azeglio in via Parrini e nonostante il servizio ausiliario – e compatibilmente con la situazione contingente – cercò di mantenere un buon andamento scolastico. Nella sua condizione, poteva usufruire delle disposizioni ministeriali che consentivano di ottenere, a richiesta, un congedo da quattro a sei giorni, per essere presenti ai compiti in classe e alle interrogazioni trimestrali. Il 20 aprile 1945 chiede colloquio con la comandante provinciale delle ausiliarie, Anna Maria Bardia, per domandarle 5 giorni di permesso per le prove di fine anno. La situazione contingente iniziava a farsi preoccupante e la comandante che ormai conscia che i giorni della R.S.I. stavano volgendo al termine e della brutalità di certi avversari animati solo da odio e rancore, propose a Marilena di stare a casa per 15 giorni, per meglio prepararsi alle interrogazione e far così onore alla divisa che indossava. Cerco anche di metterla in guardia da eventuali pericoli in cui sarebbe potuta incorrere, ma che lei, nella sua visione giovanile, pensava fossero quelli insiti nella guerra che lei aveva accettato nel suo servizio alla Patria. Non poteva certo immaginare il livello di barbarie che sopraggiunse con la fine della guerra dove l’odio e la rabbia, delle fazioni comuniste, esplosero incontrollate verso chiunque fosse additato come “fascista”.

Bastava un non nulla, un sospetto per finire nelle liste di proscrizione dei partigiani, una delazione (nessuno si curava certo di verificare se era fondata o fosse frutto di invidie o rancori) o un sospetto per cadere vittime di quella terribile  mattanza che si protrasse fino al mese di maggio. Ed era in questo clima che Marilena fu prelevata dalla sua abitazione il 28 aprile 1945.

Sua madre, Silvia Grill, ha raccontato a Rosilda Fanolla (3) che il 28 aprile un compagno di scuola di Marilena si presenta a casa sua dicendole che c’erano delle persone che volevano farle delle domande. Nonostante le madre cercasse di dissuaderla, lei – sicura di non aver nulla da temere – si mise la divisa e uscì con quel ragazzo che probabilmente l’accompagnò dai partigiani che l’aspettavano sotto casa per portarla alla caserma “Valdocco”, luogo da cui non avrebbe mai più fatto ritorno.

I motivi per cui Marilena fu prelevata s’ignorano, rimane a tal proposito quello che la signora Grill disse alla Fanolla, ovvero che era stato questo ragazzo a denunciarla.  Forse la madre aveva qualche elemento per asserirlo (e non ha mai voluto parlarne) o, semplicemente, era una conclusione dovuta al fatto che lui la andò a prendere.

Dopo essere stata prelevata la ragazzina fu portata nella caserma dove prestava servizio, al momento occupata dai partigiani della 18ª brigata Garibaldi. Da quel momento quello che le successe non ci è dato sapere. Possiamo comunque avvalerci di due testimonianze riguardo a quei giorni di prigionia, due testimonianze che lasciano presagire quello che possa aver subito Marilena. La prima è di Rosilda Fanolla che ricorda durante il colloquio con Massimo Novelli (4): “mi dissero che l’avevano violentata prima di ucciderla al Rondò della Forca nella notte fra il 2 e il 3 maggio del 1945“. Una seconda testimonianza, di una compagna di classe di Marilena, Franca Rome (5) che ricorda: “A scuola lo abbiamo saputo dopo che Marilena era sparita. Seppi che era stata rapata, come succedeva in quei giorni alle ausiliarie, prima di essere uccisa“.

La notte tra il 2 e il 3 maggio 1945 Marilena Grill ed Ernesta Raviola vengono portate al Rondò della Forca per essere fucilate. Il comandante del plotone è Alberto Polidori, ma probabilmente per un impeto di pietà (forse per la giovane età o forse per quel che avevano subito, non si può sapere) si rifiuta di sparare sulle giovani sventurate, correndo il rischio di essere fucilato lui stesso. A quel punto il comandante della Brigata Piero Sasso, detto Pierin d’la Fisa, le uccide con un colpo alla testa (o con una sventagliata di mitra secondo altre versioni) ponendo fine alle giovani vite di Marilena e di Ernesta. I corpi furono lasciati sul posto dai partigiani e solo successivamente portati al cimitero o all’obitorio dove qualcuno di buon cuore avvisò i parenti. Ora Marilena riposa nell’ala valdese del cimitero monumentale di Torino.

Perchè la prelevarono? Su cosa la interrogarono?  Rimarranno domande senza una risposta, come rimarrà anche un mistero quel che le successe in quei giorni di prigionia. La suddetta testimonianza della Rome, riporta che venne sottoposta all’umiliazione della taglio di capelli a zero e non è, purtroppo, da escludere che sia stata picchiata o violentata. Certo non ci sono testimonianze dirette in tal senso, ma  nel clima di quei giorni non era certo inusuale che si perpetrasse questo tipo d’infamia.

E rimarrà un mistero anche il perchè Marilna fu uccisa. In fondo cosa poteva sapere? Quali segreti poteva conoscere? O cosa poteva aver fatto da giustificare una condanna a morte? Ma forse non c’entravano le motivazione dell’interrogatorio. La guerra era finita, anche se le vendette e gli assassini si protrasse ancora a lungo, a breve le brigate sarebbero state smobilitate. Forse lei e le altre ausiliarie erano ormai diventate prigionieri scomodi e non sapevano cosa farsene, o magari erano ridotte in uno stato tale che era meglio inscenare una bella esecuzione con cui cancellare le prove degli eventuali misfatti. E’ solo un ipotesi ed è sicuramente terribile, ma purtroppo cose del genere accadevano. Una testimonianza in questo senso l’ha riportata la figlia del Vicefederale di Genova, prigioniero alla Colonia di Rovegno e ucciso dopo la fine della guerra, che chiedendo ad un partigiano, come mai avessero ucciso lui ed il fratello, l’agghiacciante risposta fu “Erano fascisti e poi non potevamo lasciarli andare per come erano ridotti”. (6).

Non c’è un senso in questa tragica vicenda. Non c’è un senso nell’uccidere una ragazzina di 16 anni rea solo di credere nella Patria. Quello che le è successo, al di là di qualsivoglia motivazione, è purtroppo dovuto alla brutalità e all’odio di una certa fazione di partigiani il cui unico vero obiettivo era la cancellazione fisica non solo del nemico, ma di chiunque potesse essere di disturbo ai loro piani rivoluzionari. Una massa di canaglie manovrate ad hoc dai capi social-comunisti, illusa col sogno della rivoluzione proletaria che non ci sarebbe mai stata, ma intanto per eliminare i nemici e gli alleati scomodi. E se in mezzo ci finivano persone innocenti o ragazzine come Marilena, che di colpe non ne avevano, poco importava, erano semplicemente “danni collaterali”. Storie da seppellire nell’oblio della memoria e da non ricordare. Accadimenti che è meglio non ricordare, giammai che a qualcuno venisse in mente di andare a scavare tra i rovi dei vincitori e riportasse alla luce verità che potrebbero incrinare il mito di certi “eroici” resistenti. E la riprova è il diniego che il Comune di Torino ha sempre contrapposto alla richiesta dell’Associazione Famiglie Caduti e Dispersi della RSI di apporre, a proprie spese, una lapide commemorativa nel luogo un cui Marilena fu uccisa.

 


(1) “Per Marilena Grill”, 2000 Ass. Naz. Fam. Caduti e Dispersi RSI, pg. 13

(2) “Per Marilena Grill”, 2000 Ass. Naz. Fam. Caduti e Dispersi RSI, pg. 9

(3) L’ausiliaria e il partigiano”, 2007 Spoon River, pg, 45

(4) L’ausiliaria e il partigiano”, 2007 Spoon River, pg, 46

(5) L’ausiliaria e il partigiano”, 2007 Spoon River, pg, 53

(6) Fratricidio”, 1998 Novantico Editrice


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Le soldatesse di Mussolini

LE SOLDATESSE DI MUSSOLINI

I più famosi giornalisti e storici degli ultimi cinquantanni che hanno dedicato le loro fatiche ai drammatici diciotto mesi della Repubblica Sociale Italiana (settembre 1943 – aprile 1945), se si esclu¬dono quelli di parte fascista, hanno stranamente omesso di parlare delle Ausiliarie. Esse, in numero di circa seimila, furono vere e proprie soldatesse volontarie inquadrate nell’esercito della RSI, con tanto di divise, mostrine e gradi. Non uccisero mai, anche perché avevano il divieto di portare le armi. In compenso furono uccise, sia durante sia dopo la fine della guerra civile. Non di rado in maniera crudele. Questo libro colma dunque una lacuna. E lo fa nella maniera più classica: dando la parola alla comandante del SAF (Servizio Ausiliario Femminile), generale di brigata Piera Gatteschi Fondelli (1902-1985), l’unico generale donna dalla storia d’Italia. Partecipò alla Marcia su Roma alla testa di venti ragazze squa-driste. Più tardi divenne ispettrice nazionale del PNF, la massima carica femminile del partito fascista. Il 18 aprile 1944 Mussolini la chiamò a comandare il SAF, presso il quale affluirono a migliaia le volontarie. Salvatasi avventurosamente nel crollo del fascismo a Como, rimasta vedova, visse una vita tranquilla e ritirata a Roma. Tra il 1984 e il 1985 dettò le sue memorie al giornalista e storico Luciano Garibaldi.


(Estratto da pg. 88)

[…]
Le due vittime più giovani furono Luciana Minardi e Marilena Grill: sedici anni. […]
Marilena Grill era di Torino, lavorava all’ufficio ricerche dispersi. Il 28 aprile i partigiani vanno a prenderla in casa dei genitori, dov’è tornata. Chiede d’indossare la divisa. La tengono cinque giorni alla caserma “Valdocco”. Un colpo alla nuca la liquida il 3 maggio.
[…]


(Estratto da pg. 98)

[…]
Grill MArilena, 16 anni, assassinata a Torino la notte del 2 maggio 1945 dopo aver subito ripetutamente violenza carnale.
[…]


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La Repubblica Sociale Italiana nelle lettere dei suoi caduti

LA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA NELLE LETTERE DEI SUOI CADUTI

 

Quinta edizione – estratto da pgg. 391 e 392)

MARILENA GRILL, nata a Torino il 26-IX-1928, fin dalla fanciullezza innocente e ardentissima manifesta la sua vocazione al sacrificio. Le condiscepole ricordano ancora che, già nei banchi della scuola ele mentare, la piccola Marilena, commentando i fatti della storia, più d’una volta ebbe a dire: «Io vorrei essere martire fascista!». A chi gliene chiedeva il perchè, rispondeva candidamente: «Perché morire per l’ideale è molto bello». La bimba ingenua tracciava il proprio destino. La data per lei decisiva è la caduta di Roma nel giugno del ’44. Resta qualche giorno mesta e silenziosa, poi esprime la sua volontà di far qualche cosa per la Patria. Ha solo sedici anni ma ottiene ugualmente il permesso di vestire la divisa di Ausiliaria, di cui sarà sempre orgogliosa. In divisa va quell’anno a sostenere gli esami presso il Liceo «Massimo d’Azeglio», benché sappia che sarà segnata a dito e si attirerà i rigori dei professori. Quale Ausiliaria viene assegnata all’Ufficio Assistenziale Ricerche Dispersi dove assolve un compito delicato con straordinaria premura e sollecitudine. Vengono le giornate dell’aprile del ’45. Il giorno 26, prima di deporre la divisa, stacca la piccola fiamma rossa dal berretto e se la cuce sul taschino della camicetta, dicendo alla mamma, che è angosciata e un po’ presaga: «Ho messo la fiamma proprio nel cuore» e la bacia. Il giorno 28 quattro partigiani la prelevano da casa, staccandola dalle braccia della mamma. Poiché la giovinetta ha un contegno fiero e vuole indossare la sua divisa, le dicono: «Vuoi mettere la tua divisa, ma sai dove vai? Vai alla fucilazione». Essa risponde con ostentata meraviglia: «Davvero?». Viene trattenuta cinque giorni alla caserma Valdocco, du rante i quali il disgusto per tutto quello che vede e subisce determina in lei il più completo distacco dalle cose terrene, cosicché affronta la morte – un colpo alla nuca – nella notte dal 2 al 3 maggio con sublime serenità, quasi con gaudio.

La mamma ricorda una confidenza che la diletta figlia le ha fatto nel giugno del ’44, appena tornata dalla cerimonia del giuramento prestato quale Ausiliaria. Alla cerimonia era presente il teologo don Edmondo De Amicis, l’eroico cappellano che cadrà anche lui a Torino pochi giorni prima di lei. L’insigne Cappellano, tra l’altro, aveva spiegato che il giuramento poteva comportare il sacrificio della vita. La giovane confidava alla mamma: «Ho avuto un gran brivido nel cuore, ma ho gridato: Sì!»

Sotto una sua fotografia il giorno prima del martirio ha scritto:

RESISTERE FINO AL SACRIFICIO SUPREMO. PER L’ITALIA!

Marilena

 


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I grandi killer della liberazione

I GRANDI KILLER DELLA LIBERAZIONE

Con questo libro la resistenza delle atrocità non ha più segreti.

I crimini dei partigiani di Luigi Longo, i crimini dei partigiani di giustizia e libertà perpetrati dal Lazio al Friuli durante e dopo la liberazione sono descritti in questo libro attraverso concreti dati storiografici.

Oltre 600 pagine
Oltre 100 fotografie di killer.


(Estratto dal Capitolo Quinto pgg. 322 e 323)

[…] L’accanimento dei partigiani verso le ausiliarie fu sorprendente e inspiegabile dal momento che queste volontarie non avevano operato in conflitti di alcun genere, ma adempivano servizi di fureria, di cucina e di magazzinaggio.
Tutte giovani, molte erano poco più che bambine, come la quindicenne Agnese Cravero, o Marilena Grill, di neppure diciassette anni. La vicenda che le porterà a morire s’inizia il 28 aprile, quando partigiani della 18ª brigata insediatisi nella caserma Valdocco, nell’omonimo viale di Torino, furono sguinzagliati alla ricerca di fascisti, sulla base di nomi e indirizzi scritti su registri abbandonati nella cnvulsione delle ultime ore. Quel giorno due partigiani bussarono al numero 25 di corso Oporto. Aprì Silvia Grill, madre di Marilena, ausiliari dell’ultima ora,tornata a casa dopo quel caos. Era nella sua cameretta e così fu prelevata. E’ scritto che chiese ai partigiani di poter indossare la divisa e così vestita sarebbe stata condotta al comando di viale Valdocco. Dopo cinque giorni di detenzione fu soppressa con altre due ausiliarie, la Cravero e la ventenne Ernesta Raviola.
Non è dato sapere se in quelle giornate di prigionia, avesse subito violenza o fossero comunque maltrattate. Alla luce di analoghe situazioni, è difficile credere che fossero state rispettate. Si sa che furono portate a morire in un luogo poco distante dalla caserma, in fondo a quel viale che a quel punto incrociandosi col viale Regina, prende il nome di Rondò della Forca. Il partigiano che avrebbe dovuto comandare il plotone, Alberto Polidiro, si rifiutò all’ultimo momento: l’età delle tre sventurate, quei visi di bambine, impedirono per un momento che si consumasse la tragedia. Ma rischiò lui stesso d’esser ucciso, minacciato dal comandante della “brigata” Piero Sasso, nome di battaglia Pierin d’la fisa, che subito dopo soppresse le giovani con un colpo di pistola alla testa.
Pierino Sasso, operaio e rivoluzionario, per autorità e ferocia era divenuto comandante partigiano, una “testa calda tra i più spietati giustizieri rossi”.
[…]


Piero Sasso, nome di battaglia Pierin d’la Fisa (1923-1980), cerchiato. Operaio e rivoluzionario torinese fu uno spietato comandante partigiano. Dopo la liberazione uccise giovanissime ausiliarie, come Marilena Grill, poco più che adolescente e Agnese Cravero di 15 anni (3.5.’45)


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