LA TESTIMONIANZA GRAZZINI
(tratto dalle pagine 66/70)
La Sig.ra Anna Maria Grazzini, figlia del Vice Federale di Genova Alfredo Grazzini, ha voluto rilasciare una testimonianza, da noi registrata su cassetta, degli avvenimenti che occorsero a chi, al termine del conflitto, si mise alla ricerca dei propri familiari che risultavano o caddero prigionieri delle forze partigiane, le quali amministravano “giustizia” secondo i canoni di una legge dettata dal rancore politico.
E’ questo un significativo esempio degli avvenimenti che colpirono la popolazione genovese sia durante, che nel dopoguerra, in riferimento alle dolorose ripercussioni sulle famiglie alla ricerca continua di notizie sui propri cari caduti in mano partigiana e non più ritornati.
Queste famiglie trovarono immense difficoltà nel rintracciare informazioni tese alla ricerca dei propri congiunti e il più delle volte nei reperimento dei poveri resti.
Una testimonianza significativa viene dalla figlia dei Vice Federale Grazzini che nei giorni successivi al 25 aprile si dedicò con tenacia alla ricerca del padre che era stato catturato a Vigevano, durante il ripiegamento dei proprio reparto verso la Valtellina, ed alla ricerca del fratello Adelindo Paolo capitano della Brigata Nera di Serravalle catturato a Garbagna il 14 marzo 1945.
Adelindo Paolo Grazzini fu ferito nei primi scontri avvenuti nel paese di Garbagna, mentre cercava di discendere, a capo di un manipolo di uomini, il fiume Grue per aggirare l’accerchiamento partigiano. Durante il combattimento uno dei suoi uomini cadde ucciso, un altro, si nascose tra i cespugli di giunco del torrente, e, durante la notte, riuscì a sganciarsi ed a tornare a Genova, informando dell’accaduto.
Il padre, Vice Federale di Genova, Alfredo Grazzini, iniziava, con il tramite di un frate cappuccino, una trattativa a distanza che doveva portare ad uno scambio di prigionieri. Lo scambio dei futuro Sindaco di Genova Faralli e “due o tre frilli”, con la vita dei figlio. Il frate cappuccino portò una ultima lettera che, tra l’altro, raccontava, come, il giorno di Pasqua, il l° aprile, Adelindo Paolo aveva ricevuto il conforto della comunione.
Le trattative comunque non andarono in porto per l’avvicinarsi dei 25 aprile.
Il 23 aprile il Comandante Grazzini, lasciò Genova per recarsi in Valtellina, ma veniva catturato dai partigiani a Vigevano.
La figlia dei Vice Federale, iniziava le ricerche dei familiari. Il 4 maggio, a Serravalle, riceveva dal comando della div. Pinan Cichero, una lettera che, sorprendentemente, l’autorizzava a richiedere il corpo del fratello. Continuava comunque a vivere in lei, la speranza di ritrovare i propri cari in vita. Notizie ulteriori, le avrebbe comunque ricevute dal cappellano della divisione Don Gigetto (Sac. Giacomo Sbarboro) che si trovava all’Hotel Crespi in Genova, in procinto di recarsi a Roma su richiesta dei propri superiori.
A Genova, all’Hotel Crespi, veniva ricevuta da Don Gigetto che indossava la divisa partigiana corredata da una croce sul petto ed un berretto ornato dalla falce ed il martello incrociati.
La Grazzini, chiedeva come potevano conciliarsi quei due simboli contrastanti tra loro, il cappellano, rispondeva che, lui, poteva ritenersi un buon sacerdote e un buon comunista. Alla replica che, il sacerdozio, doveva essere estraneo al credo politico, Don Gigetto alzava la voce dicendo: “ … ragazzina, stai attenta perché fai la stessa fine di tuo fratello” A ciò la Grazzini ebbe la certezza che il fratello non c’era più. ” Allora lo avete ammazzato?” fu la tragica domanda, le fu risposto, ” … tanto non li troverete mai, e non saprete mai dove sono, cani come loro non meritavano altra fine”. (Don Gigetto, classe 1902, venne richiamato a Roma e confinato in un monastero dove, lontano dalla vita pubblica, continuò la sua vita di sacerdote con il nome di padre Damiano, n.d.r.).
La ricerca della Grazzini, continuò visitando le fosse comuni di cui man mano si aveva notizia, dalle casermette di Rossiglione a Torriglia, dove il parroco dell’epoca le consigliò di recarsi a Rovegno. Colà la settimana del Natale del 1945 il parroco di Rovegno, le confermò da una foto che il fratello giaceva in una delle fosse della Colonia “con altri 400 “.
Più tardi riceveva le confidenze di una impiegata dei Comune di Rovegno, che aveva assistito all’interrogatorio del cap. Grazzini, e veniva informata che il fratello, spogliato del giaccone di pelle e degli stivali, era stato depredato anche di un anello da un partigiano, il cui nome era conosciuto dalla Grazzini perché si trattava di un amico di infanzia, passato con i partigiani. Questi, incontrato anni dopo sul tram, alla richiesta di informazioni, scappava a gambe levate nascondendo alla vista l’anello che ostentava prima al dito.
Nell’aprile dell’anno successivo, forte della concessione prefettizia che l’autorizzava al recupero delle salme di Roveqno, con l’aiuto di cinque necrofori messi a disposizione dal Comune e per una settimana, assieme ad altri familiari dei caduti, fra cui la Sig.ra Gianelli, che aveva il marito ucciso a Rovegno ed un figlio ucciso a Cravasco, iniziarono la dolorosa operazione di riconoscimento dei resti.
Il capitano Adelindo Paolo Grazzini, giaceva con altri 49 in una fossa, con le mani riunite dietro alla schiena ed avvolte con il filo spinato. Erano stati coperti da pochi centimetri di terra e ricoperti con sassi. Il corpo ormai scheletrito, indossava due camice, l’una grigioverde, l’altra nera. Due calzettoni militari di lana bianca ed allo sterno un fazzoletto piegato che conteneva un orologio, ambedue riconosciuti essere dei cap. Grazzini. Un particolare macabro di cui non si conosce assolutamente il motivo, il capitano della Brigata Nera Adelindo Paolo Grazzini risultava mancante di ambedue i piedi.
Nella ricerca di altre fosse, veniva reperito nelle vicinanze della Colonia il corpo di un militare di nazionalità russa incastrato a forza fra due macigni.
Su nessuno dei resti trovati furono reperiti documenti atti a risalire alla sicura identificazione dei caduti.
Venne il Vescovo di Bobblo a benedire i resti e pubblicamente, con Don Albino parroco di Rovegno, ringraziò la sig.ra Anna Maria Grazzini per l’opera intrapresa di dare sepoltura ai caduti. Venne anche la concessione di un sito nei locale cimitero, a cui si oppose con veemenza il giornale “Il Partigiano”, che accusò il Comune di voler fare di quei poveri morti degli eroi.
Alla sig.ra Grazzini venne riferito che i prigionieri erano stati rinchiusi nella torre della Colonia, ove, sui muri si potevano ancora leggere molte scritte, tra le quali però, non aveva ravvisato quelle dei fratello. Il dott. Gianelli, figlio e fratello di due caduti prigionieri nella Colonia, asserisce che essi vennero rinchiusi nella palestra; invece gente dei paese sostiene che fossero segregati nel locale caldaie
Resta da dire che la quantità di persone colà prigioniere potevano, nei momento di maggior ressa, dare ragione a tutte e tre le versioni.
Testimoni oculari riferirono a suo tempo che, dopo i fatti di Garbagna, i prigionieri vennero condotti a piedi alla Colonia, e sia il capitano Grazzini che il ten. col. Gianelli, furono caricati di una croce e costretti a trascinarla lungo tutta la strada, insultati picchiati e sputacchiati ad ogni sosta dai contadini chiamati dagli aguzzini a quell’opera.
Nel colloquio riportato, Don Gigetto, informava la sig.ra Grazzini, che i prigionieri della Colonia non erano stati rilasciati, perché non erano più presentabili. Sino alla data della loro esecuzione, vennero nutriti con “un pugno di castagne secche al giorno “.
Il Vice Federale di Genova, Com.te Alfredo Grazzini, dopo alterne vicende che lo videro torturato nella questura di Genova perché confessasse la partecipazione all’uccisione dei partigiano Severino (Saverino Raimondo nato a Licata nel 1923, fucilato a Borzonasca il 21 maggio 1944 dalla Brigata Nera di Chiavari n.d.r.), venne processato e condannato dal giudice Cugurra (a suo tempo, fascista e fruitore di raccomandazioni da parte del Grazzini come testimone di purezza della sua fede) a 20 anni di carcere scontati in parte nel penitenziario di S. Gimignano. Venne rilasciato nel 1950 dopo un nuovo processo a Brescia che dimostrava la faziosa ingiustizia del primo e la completa innocenza dei Grazzini.
Durante la sua detenzione nella questura di Genova, venne sottoposto al taglio delle unghie degli alluci ed alla sollevazione delle stesse con pinze, per cui non riuscì più a camminare normalmente. Fu curato con quel che era possibile trovare nella prigione dalla ausiliaria della R.S.I. Sig.ra Adriana Origone che in quei tragici momenti, anche lei, fu torturata con la mutilazione di parte del seno e continuamente oltraggiata.
Tali torture ebbero termine per l’intervento dei Commissario di P.S. Angelo Costa – “Giulin ” – che appurò, con testimonianze inconfutabili, l’infondatezza delle accuse. La condanna a 20 anni, venne erogata da parte dei giudice Cugurra con la motivazione che, comunque, era fascista e quindi doveva pagare.
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